29 Settembre 1970 - Roma, Palazzo dello Sport

 

(Tour poster)

Scaletta:

 

Jumping Jack Flash
Roll Over Beethoven
Sympathy For The Devil
Stray Cat Blues
Love In Vain
Dead Flowers
Midnight Rambler
Live With Me
Let It Rock
Little Queenie
Honky Tonk Women
Brown Sugar
Street Fighting Man

Quando leggemmo la notizia su Big, un giornale di musica di allora,
fu un delirio. Eravamo in un paesino di tremila abitanti, Buonalbergo, in provincia di Benevento e non era facile, trovare riviste di musica o
reperire dischi di cantanti poco conosciuti, portare i capelli lunghi.
Anche se i genitori erano d’accordo, non lo erano la gente, la scuola,
i parenti e gli insulti che ci piovevano addosso erano tanti.



Ma bisognava tenere duro. Il nostro divertimento era la musica e il gruppo formato con gli amici
era il nostro punto di forza. Beatles, Stones, Who, Hollies, Bee Gees e poi i complessi italiani accompagnavano le nostre lunghe giornate per strada a suonare con la chitarra o nei “club” ad ascoltare dischi, quando non eravamo all’oratorio dei Salesiani, in una sala, a provare le nostre canzoni. Era questa, nell’appendice dell’estate del 1970, la nostra condizione. Avevamo appena preso il diploma chi di liceo classico, chi scientifico, chi magistrale e stavamo preparando i documenti per iscriverci all’università quando la pietra rotolante degli Stones ci saltò quasi improvvisamente e piacevolmente addosso dalle pagine di Big.

Subito ci precipitammo a cercare i biglietti nella vicina Benevento ma qui non sapevano nemmeno chi fossero i Rolling Stones. Contattammo così Emilio, fratello di Fernando, nostro chitarrista, che studiava Farmacia a Roma. Subito si mise alla ricerca dei biglietti, quelli buoni, della platea. Costavano di più ma non c’importava.

Quando qualche giorno dopo ci comunicò di averli presi cominciammo a pensare come portare a termine questo sogno che era appena cominciato. Eravamo tutti pieni di entusiasmo ma anche di ansie e di paura che una realtà così bella e quasi a portata di mano potesse sfuggirci per un nonnulla, magari un treno perso, una febbre o tante altre angosce che ti prendono quando sei a un passo da un sogno. Il nostro problema più grande era non solo quello di raggiungere Roma, ma soprattutto di dimostrare ai genitori che lì avevamo un posto dove dormire e mangiare. Era questa la loro preoccupazione più grande, visto che era la prima volta a 17/18 anni che ci allontanavamo da soli dal nostro paese. Ma tutto fu sistemato perché organizzammo di andare a dormire alla Casa dello Studente di via De Lollis, a Roma.

Partimmo dal paese in treno alle 5 di mattina e verso le dieci raggiungemmo la casa dello studente dove lasciammo i nostri zaini. Mangiammo qualcosa, poi di corsa verso il palazzo dello sport a fare la fila. I posti erano numerati ma l’ansia di entrare era grande. Davanti allo spiazzale antistante il palazzo dello sport c’erano soltanto due tir accostati che erano serviti a portare la strumentazione e il necessario per il palco, solo due! All’uscita dal concerto divennero un bagno pubblico e anch’io mi onorai di bagnare le gomme di uno di loro. Quando finalmente aprirono i cancelli raggiungemmo di corsa il nostro settore.
(Settore D, fila X, n. 7). Quindi l’attesa e finalmente i Rolling Stones.

Non mi sembrava vero ma il sogno si era finalmente avverato!
Eravamo in platea, seduti sulle nostre sedie ma quando arrivarono sul palco salimmo tutti coi piedi su di esse e cominciammo a sognare.
La gioia, l’ansia, l’angoscia che il sogno stava per finire: non ricordo molto l’ordine delle canzoni né come suonarono e nemmeno l’acustica com’era. M’importava solo di vederli e sentirli e fui travolto da quella magica atmosfera. Un’immagine mi è rimasta impressa: quella di Anita Pallenberg, ex di Brian Jones , e allora moglie di Keith, che passeggiava,
a ritmo di musica, sul fondo del palco, col figlio in braccia.
Poi il sogno svanì ma io lo avevo vissuto ed ero pieno di magia e nostalgia. Da allora l’ho rivissuto ancora…tutte le altre volte che son tornati.

Lodovico Scocca







Articoli Corriere della Sera Settembre 1970

-ASCOLTA un audio-









Inspiegabilmente, ci sono ricordi a colori e ricordi in bianco e nero, persino ricordi che mischiano le due tipologie, decisamente più rari. Alcune volte sono ricordi indotti dalla mole d'informazioni catalogate nel corso della vita. Più il "momento vissuto" è comune a tanti, specialmente se ripreso da TV o immortalato in scatti fotografici, più le "cose" si confondono. Sei sicuro che quella persona indossasse quel particolare vestito e dopo tanti anni scopri che non è vero, proprio mettendo in ordine l’album fotografico adolescenziale... semplicemente hai memorizzato una foto al posto di un’altra, il concerto di Amburgo e non quello di Roma o di Londra o di... insomma, hai mischiato le carte e, senza accorgertene, barato con te stesso.

Per me i ricordi del concerto dei Rolling Stones al Palasport di Roma sono assolutamente in bianco e nero, nonostante i colori non mancassero agli albori di quegli anni '70 che, allora non potevamo immaginarlo, sarebbero stati fondamentali per l'evoluzione dell'arte e della società in generale. Ovunque era un fiorire di stravaganze cromatiche: vestiti post viaggio in India o post qualcos'altro, manifesti cinematografici o dei concerti internazionali (quelli italiani, purtroppo, erano piuttosto spartani, con al massimo il nome dell'artista scritto in un carattere anonimo... brutti, decisamente brutti).
Dei Rolling al Palasport nel '70, invece, è come se tutte le immagini, e persino i suoni, siano come le splendide fotografie del mio amico Renzo Chiesa: solido bianco e nero, pur con tutte le necessarie sfumature del grigio a renderle vive. Penso che ciò derivi da due situazioni che mi prendevano in quei giorni... erano i tempi in cui iniziavo a fotografare, sviluppando i negativi e stampando le foto, ed ero tutto concentrato a costruire le immagini del mondo circostante con l'obiettivo della mia Nikon F; così come scomponevo i colori nel B/N e nei grigi per capire se la foto avesse senso, così elaboravo quei momenti degli Stones; la loro musica, poi, era ancora così tosta, quasi grezza, esprimeva il profumo del blues elettrico e mi rimandava immancabilmente al B/N delle poche foto di Robert Johnson o del Delta del Mississippi.

Andai a comprare il biglietto del concerto presso la redazione di Ciao 2001, giornale che non amavo le per sue derive, grammaticali e musicali (nel senso che gli articoli non erano proprio scritti bene e spesso confondevano la cioccolata con un'altra "cosa") ma era tra gli organizzatori, o almeno così lasciava intendere il loro logo sul biglietto.
Un ricordo a colori ce l'ho: le urla di mio padre quando gli chiesi i soldi per compare il biglietto: "3.000 lire!". Però, nonostante la sua etica artigiana (faceva l'ebanista) gli facesse sembrare assurdo quel prezzo, non poteva deludere la mia passione per la musica, che lui stesso aveva stimolato. "Però torni con l'autobus notturno, io non ci vengo a prenderti, mi alzo alle 5 di mattina", fu la risposta. Ok, tanto c'era l'autobus notturno ed ero in compagnia del mio amico Carlo Frignani, con cui ho condiviso qualsiasi cosa della mia vita, in primis la musica... e non è poco.

Ciononostante, abitare nella periferia romana all'inizio dei '70 e dover andare al Palasport era come per Colombo arrivare nelle Americhe. Il concerto era alle 21, noi partiamo alle 14, subito dopo l'uscita da scuola. Non si sa mai. Arriviamo alle 15:30, ci guardiamo in faccia e pensiamo: "ora cosa cavolo facciamo fino all'apertura dei cancelli?". Cominciamo a girare in tondo, visto che il Palasport è circolare, per aggregarci ai pischelli che ci sembrano più simpatici. "Questi, questi – faccio io – stranamente sono quasi tutte donne, estremamente carine, simpatiche e hanno pure le t-shirt dei Rolling". Il tempo, ovviamente, passa veloce, quasi non ci accorgiamo che stanno per aprire i cancelli. Ormai abbiamo fatto amicizia e ci sembra di far parte di quel gruppo da sempre: una ventina di persone al loro primo concerto rock, ad eccezione di una ragazza più grande, già presente al loro concerto romano del 1967. Mi faccio dare l’indirizzo da una bella moretta con l’intento di andare a trovarla a Terni, dove abita; in verità, questa cosa occupa la mia mente più del concerto imminente. Entriamo correndo e cerco la postazione strategica per starle più vicino. E quando mi ricapita un'occasione simile!
Ok, tutto a posto. Atmosfera bollente, la polizia dentro il Palasport, questa cosa sarebbe poi gradualmente scomparsa. Io guardavo tutto con gli occhi spalancati. Piccole risse, spostamenti di gente che cercava di passare da un settore all'altro, molti cori sugli Stones ma non solo.
Ma che fico andare ai concerti, se lo fai in questo modo sembra durino un giorno intero, con i preparativi che sono quasi meglio dell'esibizione stessa.
Comincio a sentire che il momento tanto atteso si avvicina... Ripenso alla scaletta del live Get Yer Ya-Ya's Out!, uscito in Inghilterra il 4 settembre e che io, fortunato, avevo ricevuto come regalo ritardato per il mio compleanno da un mio amico di ritorno da Londra e letteralmente consumato. Sì, sono sicuro che inizino con Jumping Jack Flash come su quel disco che ormai conosco a memoria.
Il brano che più amo in assoluto degli Stones è We Love You, ma so che non la faranno mai; con l'ingresso in formazione di Mick Taylor al posto di Brian Jones, poi, l’asse si è ancora più indurito. La formazione con Mick Taylor, chitarrista proveniente dai Bluesbreakers di John Mayall (università del blues bianco in cui cesella da maestro in tre dischi straordinari come Crusade del '67, Bare Wires e Blues from Laurel Canyon, entrambi del '68), per me è la migliore che la band abbia mai avuto.

Mentre argomento su Mayall e dintorni, le luci di un Palasport ormai zeppo si spengono improvvisamente, io mi guardo intorno per vedere se la mia amica è ancora a tiro e, rassicurato, mi rigiro verso il palco (per anni fu il più imponente visto in quella location). Alla spicciolata entrano i 5 musicisti: Bill, Charlie, Mick Taylor, che sembra un po' spaurito (d'altronde nel '70 ha da poco compiuto 21 anni), Keith e, alla fine (anche se non avessi guardato lo avrei capito dall'innalzamento del livello delle urla femminili), sua maestà Mick Jagger. Un ultimo sguardo alla mia amica e quando parte lo sferragliare delle chitarre di Jumping Jack Flash, come avevo sognato, il viaggio inizia sul serio.

Alla fine di quel brano torrenziale capisco che il rock bisogna viverlo in concerto, non solo sui dischi, e che nella mia vita voglio "vivere" con la musica sempre al mio fianco.
Scorrono via altre sette canzoni prese da quel live che ancora oggi adoro: Sympathy For The Devil, Stray Cat Blues, Love In Vain, Midnight Rambler, Live with Me, Little Queenie, Honky Tonk Women, in mezzo Roll Over Beethoven, Dead Flowers, Let It Rock... alla fine una chiusura incendiaria quanto l'apertura, ovvero Steet Fighting Man.
Al termine sono esausto (ma cosa diavolo avrò fatto?) anche se per i canoni di oggi 12 brani sono pochi e donano al concerto un'urgenza espressiva vicina al punk. Rapido, bruciante anche nelle ballate, ritorno alle origini del R'n'R.
Il suono, senza musicisti aggiunti, è asciutto e abrasivo, la voce di Jagger è posseduta dal demonio... le chitarre di Richards e Taylor sembrano gemelle nella devianza dagli stili ortodossi, anche se Taylor ha una capacità espressiva in quel momento inarrivabile (prima che la "roba" gli rovinasse esistenza e stile chitarristico...) la sezione ritmica è l'essenza degli Stones, c'è anche quando non si vede! Sul palco la situazione estetica è ben delineata: due musicisti immobili quanto serve (Watt e Wyman), uno indeciso se muoversi o meno (Taylor, che alla fine si muove solo quanto serve per suonare efficamente) e due che sembra non si accorgano di nulla intorno. Specialmente Mick è una furia selvaggia e il pubblico è tutto ai suoi piedi.

Lentamente mi rendo conto che non c'è quasi più nessuno intorno a me e cerco gli amici. Nessuno in vista. Esco fuori e mi sommerge una marea di persone che cercano di tornare a casa. Nessuna notizia del mio amico e, soprattutto, della moretta di cui dovrei avere l'indirizzo in tasca; infilo la mano nei jeans e, ovviamente, ho perso tutto nella calca. Mi ritrovo da solo fuori dal Palasport, senza il mio amico e con l'ultimo autobus già partito (a differenza di quanto diceva mio padre, non c'è nessun servizio notturno per tornare, e non ho soldi per il taxi). Per arrivare a casa mia ci vorranno 10 km... dai, un passo in meno, da stanotte sei R'n'R e per trascorrere il tempo canta quello che hai sentito... così mi sento meno solo e intono, più in stile Alberto Sordi che Mick Jagger: "I was born in a cross-fire hurricane..."

Guido Bellachioma da ilsuono.it




foto Marcello Geppetti © MGMC/dolceVita GALLERY



Mick Taylor e Bill Wyman in Hotel



Sono le ore 22.40 quando le luci si smorzano nel Palazzo dello Sport: come si riaccendono, gli Stones appaiono sul palco.
Salutati da un'ovazione, si lanciano subito nella prima canzone: "Jumping Jack Flash". Mick Jagger inizia a danzare come un ossesso, intorno a lui saltella di tanto in tanto Keith Richards. Gli altri tre sono immobili, tesi a creare la base musicale.
Noto che il suono dei Rolling Stones e' ben piu vivace, brillante e dinamico di quanto non fosse quattro anni fa, ai precedenti concerti italiani. La chitarra di Mick Taylor, soprattutto, e' fantastica.
La seconda canzone e' un vecchio successo, "Roll Over Beethoven", scritta dai Beatles; poi arriva "Sympathy For The Devil", nella quale e' eseguita con grande veemenza. Poi viene "Stray Cat Blues", nella quale due musicisti si uniscono al quintetto suonando una tromba e un sassofono; per questa canzone (e la successiva) Mick Taylor lascia che sia Richards a fare la ritmica e lui si esibisce in lunghi, splendidi a solo.
Dopo una pausa per aggiustare la batteria di Watts, viene intonata "Love In Vain", uno splendido brano popolare fatto proprio dagli Stones. Segue una canzone ancora inedita, tratta dai prossimi dischi: si sente di nuovo il pianoforte. E arrivano cosi le 23.15, quando Mick Jagger infila una minuscola armonica tra le labbra e inizia un lungo, brillante a solo: si tratta di "Midnight Rambler".
Mentre la canzone scatena l'entusiasmo della folla, si nota la sagoma di Anita Pallenberg, che balla a tempo dietro gli amplificatori, intenta a cullare il piccolo figlio avuto da Keith Richards.
La canzone termina alle 23.24: quasi dieci minuti trascinanti.
E' la volta di "Live With Me", violenta e ritmica, alla quale fanno seguito altri due pezzi del repertorio ancora inedito: sono ritmi scatenati, durante il secondo dei quali (alle 23.34) si scorgono orde di "portoghesi" riversarsi nel catino della sala con i posti piu cari, i numerati.
Gran parte del pubblico e' adesso in piedi, scrosciano gli applausi. Mick stesso li sollecita, improvvisando una incredibile danza del ventre.
Alle 23.36 Keith cambia la chitarra e si slanca in un ritmo sfrenato, inedito. Si accendono tutte le luci del Palazzo, la folla si stringe verso i propri idoli. Alle 23.41 gli Stones stanno ormai suonando ininterrottamente da un'ora, con appena un paio di minuti di pausa: infatti passano da una canzone all'altra, con qualche secondo di sosta.
Scorgiamo Keith che si affretta a tracannare qualche sorso da una bottiglia di Johnny Walker: whiskey purissimo. E' evidente che sono finiti i tempi della droga. E dopo il liquiore frettolosamente ingollato, Keith attacca "Honky Tonk Women", mentre Mick canta minando le mosse della prostituta che adesca il cliente, come dicono i versi della canzone.
E siamo cosi alle 23.46: il complesso attacca "Street Fighting Man", che, come urla Mick, e' l'ultima canzone. Poi inizia a cantare in un olocausto di mani protese, di strida: Mick afferra un cesto di rose, le lancia a manciate verso il pubblico, poi getta addirittura la cesta. E alle 23.50 esatte, deponendo gli strumenti, i Rolling Stones concludono il concerto.

Fulvio Fiore da Ciao 2001



   






i Rolling Stones arrivano a Fiumicino



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