Rolling Stones Italia • Leggi argomento - Bruce Springsteen & The E-Street Band

Christian mi chiede di mettere anche qui il suo articolo, lo faccio con piacere
Sici
He's the boss
Antropologia. E' questo, ancor prima che la cultura o la musica, l'ineludibile punto di partenza di qualsivoglia ragionamento su uno show di Bruce Springsteen. Non storcano il naso i puristi del rock: il Jersey Devil è oggi ineguagliabile medaglia d'oro nel simboleggiare come, al di là di alcune spiacevoli distorsioni turbo-consumistiche, salire su un palco con al collo una chitarra e in tasca la voglia di radere al suolo il mondo sotto i colpi del suo suono, sia ancora ciò che aveva postulato Andrew Loog Oldham all'alba degli anni sessanta, ovvero una faccenda “about human happyiness”.
Quanto a felicità, lo show di ieri sera all'Olimpico di Torino (ma nel cuore di coloro che, nel 1988, si sono infilati in un Tunnel Of Love lungo quattro ore resterà sempre il “Comunale”) lascia solo l'imbarazzo della scelta. L'apoteosi si raggiunge quando Bruce il mago e la sua ghenga (con un Max Weinberg letteralmente baciato in fronte dalla divinità della metrica) tirano fuori dal cilindro il collaudato trucco di accendere lo stadio a giorno su un'indiavolata Born To Run e, a guardarti attorno, i sorrisi fioriscono in numero tale da ridurre Tonino Guerra e Patch Adams a due musoni piantagrane.
Ma felicità resta anche il vocabolo più adeguato da accostare a un'esibizione di tre ore senza pause, con sei brani mai suonati prima nel tour Waiting On A Dream; a una Murder Incorporated più ringhiosa di un dobermann, settimo pezzo dei ventisei in scaletta, che ha rappresentato il vero punto di non ritorno della serata; a una American Skin (41 Shots) tanto intensa da sembrare una preghiera, onorata dai 33.000 dell'Olimpico con un religioso silenzio; a una Glory Days che ha fatto scorrere nella mente di chiunque il film dei giorni migliori della propria esistenza; a una Twist And Shout sulla quale la E Street Band si è congedata definitivamente, ricordando agli astanti come una cover non sia necessariamente terra d'esercitazione per rocker imberbi, ma sentito omaggio a chi ha iniziato il solco di una tradizione musicale cui si devono, oggi, le più elevate affluenze mai registrate ad eventi dal vivo.
L'affresco della bollente (non solo artisticamente) notte torinese sarebbe però incompleto senza raccontare pure della felicità di chi stava sul palco. A un sospiro dai sessant'anni, Springsteen ne combina che non riescono a chi ha spento quaranta candeline di meno. Non solo corre avanti e indietro sul palco come Mennea ai tempi d'oro, ma si toglie pure la soddisfazione di saltare su e giù dal piano di Roy Bittan. E, elemento più rivelatore di una cartina di tornasole, sfoggia – a parte nei momenti solenni del concerto (ma solo un minus habens sghignazzerebbe interpretando Drive All Night) – un sorriso costante, primo e vero veicolo di scambio emozionale con chi ha affollato il catino di corso Sebastopoli.
Per non dire poi di quanto se la ride nel gustare l'originalità dei fan italiani che, al momento delle richieste di brani, accolte dal Boss ricevendo cartelli e striscioni, gli passano tre buste numerate (siamo o non siamo il Paese la cui storia televisiva affonda le radici nel “Rischiatutto”?) contenenti tutte lo stesso titolo, oppure un materassino da spiaggia, ideale simbolo dell'estate, nonostante l'acqua a bagnare Torino sia quella di Po e Dora. Il volto del ragazzaccio cresciuto nel New Jersey si accende però soprattutto quando, fedele a una concezione dogmatica dello spirito rock, viene a contatto con il suo pubblico, come di fronte agli ingenui sbeffeggi della bimba issata sul palco sulla coda di Dancing In The Dark.
Insomma, Springsteen appare oggi più consapevole di sempre del fatto che la vita è fatta per correre, ma se ciò è duro, quantomeno offre in cambio delle sensazioni, delle quali sono invece esenti d’ufficio le esistenze prêt-à-porter che affollano le pagine di “Repubblica” negli ultimi giorni. Ed è la stessa voglia di conquistarsi un domani, non senza versare lacrime e sudore, che, oltre ad aver spinto Bruce a uno spessore interpretativo decisamente superiore all'inizio del secolo, sottende alla visione dell’American Dream di cui il Boss è diventato icona nel mondo. Un registro narrativo con le visioni on the road di Kerouac per fucina, ma senza rinunciare a sane dosi di intransigente sincerità per cui Barack Obama ha sbancato al tavolo della politica a stelle e strisce.
Esaurito questo capitolo, a voler essere più pignoli del notaio di “Affari Tuoi”, sul piano musicale, ci si potrebbe interrogare sui perché del ricorrere, quale opener, a un pezzo non esattamente di prim'ordine come Loose Ends, che suona sotto la media rispetto ad altre prime pietre posate in passato. Però, non è altro che un falso problema. I musicisti che circondano Bruce mostrano coralmente come non si possa mentire, nemmeno per un secondo, ai devoti della loro celebrazione rock e, laddove si prendono qualche licenza di gigioneria, come nel caso di Little Steven, non fanno altro che testimoniare la solidità (e la genuinità) dei legami cementati in anni in un garage del New Jersey, dopo aver deciso di dare l'assalto al mondo, brandendo una sei corde. Pensate a quanti concerti, nell'ultimo anno, vi hanno lasciato con un sorriso sulle labbra. Ecco, ora sapete perché Springsteen è il Boss.

Christian Diemoz

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