Messaggi: 25Iscritto il: 19 agosto 2006, 18:56 |
La terapia del dolore
Christian Diemoz chiama…
Se il tempo, di norma, restituisce ciò che dei giudizi affrettati hanno tolto anni prima, i Rolling Stones sono titolati a far causa. Ora e sempre. La loro quadrilogia del dolore - ovvero “Emotional Rescue”, “Tattoo You”, “Undercover” e “Dirty Work” – quella a cui guardare veramente con gli occhi riservati al miracolo, continua a non riempire che spazi marginali, contro le pagine intere che una lettura finalmente matura dovrebbe imporre quale meritato risarcimento.
E invece niente. Ventotto anni dopo, nulla è cambiato. Butti sul tavolo uno di quei quattro trentatré giri in un crocicchio di supposti esperti del settore, ma anche di tanti (troppi) fan, e finisce esattamente come all’indomani della loro uscita. Giù con gli epiteti di marca stupidamente adolescenziale, con i giudizi tutti chiacchiere e coprofilia, con la supponenza di chi, non riuscito a darsi un domani da musicista, ha saltato il fossato pensando che un oggi da critico musicale fosse comunque meglio di lavorare, con i “mica sono i veri Rolling Stones, quelli lì”.
Opinioni che fanno male, quanto risultano prive di senso. Si badi bene, non è il paragone con il nulla di adesso a rendere necessario un approccio diverso alla creatività rotolante degli anni ottanta, ma proprio la contestualizzazione di quelle opere nell’epoca che ha dato loro i natali. Forse tanti non lo ricordano, perché in fondo in gioventù vale tutto, perché “tanto cazzate ne abbiamo combinate tutti”, perché all’epoca non esistevano gli spettri con cui si è dovuto imparare a convivere in seguito, quindi meglio sentirsi degli Highlanders che delle pecore, però cos’erano davvero quegli anni?
Un ripasso veloce non richiede che qualche riga: il Pentapartito non governava, imperava; il Tg2 apriva con sei (ma non di rado, a seconda di quanto fosse arrivista il caporedattore in turno, diventavano anche sette) servizi su Craxi; per la strada alcuni cartelloni pubblicitari minavano la serenità di tanti matrimoni strillando lo “Speciale Le Ore” con protagonista Minnie Minoprio; in piazza San Babila apriva i battenti il primo “Burghy” italiano con i suoi neon fintamente (e beffardamente) Art Déco; Marco Baldini non era che uno sconosciuto vj tutto Videomusic ed ippodromi e Campari e Negroni andavano a litri, quanto la pozione di Obélix.
In una parola: fumo, o se vi sentite di animo romantico, bolle di sapone. Niente che fosse costruito su uno straccio di radici, per quanto flebili. La corsa all’oro nel Klondike era roba da dilettanti, in confronto. L’affare si poteva fare, anche se non c’era, bastava nominarlo. E le imprese degli architetti di Aiazzone, vogliamo fare finta di dimenticarcele? E i prodotti di quel campionato mondiale di inutilità, noto come catalogo “Euronova”, con in copertina il mulo che distribuiva sigarette dall’ano, oggi nessuno ammette di averli comprati, vero? E “Panorama” con un’apertura fotografica sempre e comunque di nudo femminile, nonostante il rimando fosse a venti pagine sulla mortalità infantile nel Burkina Faso, è un documento di un’epoca, mica altro, eh?
Ora, è comprensibile che la recessione globale tenga più banco di questi vaneggiamenti al tempo imperfetto (anche se troppo sovente ci si scorda che di tutto ciò è immancabilmente figlia). Però, se qualcuno ancora riesce davvero a guardare con gloria a quegli anni, è ora che rimetta le lancette in pari con l’ora esatta. Fumo era, bolle di sapone erano, tali sono rimaste. Sarebbe presuntuoso sostenere che gli Stones l’avessero capito per tempo, cambiando binario volutamente. Parliamo di esseri umani, alla fine, capitanati per di più dall’unico frontman riuscito a sporgersi per vedere l’immagine di Narciso nello stagno, senza caderci dentro. Lui il virus disco l’ha contratto proprio allora e la venerazione non l’ha mai abbandonato, tanto che ancor negli ultimi tour c’è chi l’ha visto infilarsi all’“Hollywood”, se non ai “Bains Douches”.
Però, se le Pietre sono estetica, vita e costume, ancor prima che note e musica (e questo sì, è vero dagli anni sessanta), già le copertine di quei dischi mandano messaggi tali da consigliare il silenzio a chi venera “Their Satanic Majesties Requests” quale alibi pubblico per i venti spinelli fumati ogni giorno. Il mondo aveva scoperto e abusava del Pal Color? Non c’era insegna di un negozio, financo un gommista, che non desse il mal di testa per il numero di tonalità cambiate in un minuto? Et voilà, “Emotional Rescue”, con le immagini termografiche a farsi una beffa di tutto ciò. Tutti ammiccanti, tutti con quel sorriso da aperitivo cronico, tutti pronti ad andare a scegliere l’alloggetto a Milano2, convinti che una palude di Segrate, a uno sputo da Linate, fosse davvero un bel posto? Ed ecco quel calcio negli zebedei, dal titolo “Dirty Work”, in cui ognuno dei componenti del gruppo è vestito in tinta da biscia d’acqua. Peccato solo che nessuno sorrida. Un’epoca di frattaglie, anche sentimentale, in cui nulla sopravvivesse alla manciata di ore di una notte, tanto HIV erano solo tre lettere come altre? Giorni di tutto e subito, in cui i bambini venivano educati al “comunque c’è una soluzione”, con giochi del tipo “L’Allegro Chirurgo”? Ok, avanti un polmone, una bottiglia, un adesivo… Signore e Signori, “Undercover”. Suvvia, forse non avevano capito fino in fondo cosa stesse succedendo, ma se questo non è un rifiuto – intelligente ed elegante - di omologarsi a un trend, allora Obama è dello stesso colore di McCain.
Musicalmente, poi, il campo offre una panoplia di esempi ai confini dell’imbarazzo. “Dance pt. 1”: non è scat (ma Van Morrison non riuscirebbe a farlo), non è rap (ma Puff Daddy andrebbe in debito d’ossigeno), è Mick Jagger. Punto e basta. Suonate in una cover band? Provate a farla. Lasciate perdere “The Last Time” e “Let’s Spend The Night Together”, che in fondo non aggiungono e non tolgono niente alla vostra capacità, e, una volta in sala prove, se il pezzo d’apertura di “Emotional Rescue” vi riesce al primo colpo, avete diritto ad un premio (a condizione che non bariate, sostituendo il testo con suoni più o meno calzanti). “Down In The Hole”: su questa traccia, il dolore prende forma. In quel “Buy your forgiveness” al secondo verso convivono peccato e penitenza, mentre fatica e vapori d’acciaieria salgono dall’armonica iniziale, inseguita dall’apparente fuori tempo di Charlie Watts. Additare come “leggeri” brani del genere, non vedere l’architettura musicale su cui si reggono, che manco un decerebro (con tutto il rispetto del caso) assimilerebbe ai lavori delle “stelle” di quei giorni, rappresentate da emeriti precursori della dinastia defilippiana dei Tronisti, quali Gazebo, Sandy Marton, Nick Kamen (e ci fermiamo qui, prima di correre in bagno a cercare il Malox), significa anzitutto fare un torto a sé stessi, alle teorie evoluzioniste di Darwin. Dopodiché, tentare di spacciare alle masse una tesi del genere, è fraudolento e colposo e dovrebbe rappresentare reato penale, derubricando una volta per tutte l’“incauto acqusito” di cui, a dire di troppi, si sarebbero macchiati coloro che hanno voluto sul loro scaffale uno dei dischi targati anni ottanta degli Stones.
Eppoi, vogliamo parlare di cuore? Se negli Stones, sul piano compositivo, è importante quanto il cervello, allora siamo davanti ad una tappa obbligata. Anzi, almeno a tre. Possiamo raccontarci dei fiori e delle api per giorni, o mesi se preferite, ma se la musica smuove gli ormoni di un uomo e una donna come poco altro, fingere che “Emotional Rescue” non includa “All About You”, che “Dirty Work” sarebbe lo stesso senza “Sleep Tonight” e che a “Tattoo You” non mancherebbe niente, eliminando “No Use In Crying”, equivale a decretare la fine, immediata e senza appello, della sessualità sulla terra. E qui ce n’è anche per i fan, specie quelli italioti, puntualmente in prima fila a lagnarsi degli album degli eighties, ma dalle riserve di coerenza su cui sarebbe bene indagare. Ammesso, e non concesso, che la severità nei confronti dei pezzi di cui si è appena detto finisca con l’essere ben riposta, allora urgono spiegazioni sull’indifferente indulgenza nei confronti di materiale come “Loosing My Touch”, o “This Place Is Empty”. A pensar male si fa peccato, ma non sarà che oltre alla coerenza sono finiti pure i cotton-fioc?
Tutto ciò, limitandosi agli esempi. A ciò che è documentabile, sostenibile e dimostrabile. Come sempre dovrebbe essere per chi fa dell’ascoltare un disco qualcosa di più di un fatto intimo (partendo dal presupposto che se qualcuno lo definisce un “lavoro”, parte già in malafede ed è da rifuggire aprioristicamente). Perché poi, volendo usare agli Stones la schiettezza che meritano per essere lassù, stella polare che brilla da trentasei anni, bisogna anche dire che volendo sconfinare nelle congetture, nei “volemose bene” e inzuppando “Emotional Rescue”, piuttosto che “Dirty Work”, a mo’ di taralluccio in una scodella di vino, allora si potrebbe andare avanti, senza sforzo alcuno, per un'altra pagina tutta. Che gli eighties abbiano costituito il decennio giunto ad un millimetro dal tramutarsi in lapide della band, non conta una fava? Che uno spirito placido come Charlie Watts abbia affrontato (e sconfitto), proprio a cavallo di quella decade, una tossicodipendenza da stupefacenti pesanti, non vuol dir niente? Che Richards e Jagger non resistessero nella stessa stanza per oltre dieci minuti, e che Ronnie Wood imperversasse nell’insulso fuori giri in cui insiste tutt’oggi (spendendo quindicimila Euro a settimana, in compagnia dell’unica russa diciannovenne brutta sulla terra), non fa curriculum? Insomma, perché tutto ciò che la critica erge ad attenuante in qualsiasi caso, quando il soggetto dell’articolo sono gli Stones, diventa aggravante? In realtà, vista la caratura di quelle opere, come si diceva in apertura, sì che bisogna guardare a quei quattro dischi come all’ampolla di San Gennaro durante la liquefazione, essendo note le condizioni in cui sono stati realizzati.
…Massimo Del Papa risponde.
E vogliamo continuare a parlarne, degli Stones anni Ottanta. Perché non c'erano ma c'erano, perché si sono inabissati per riemergere diversi e sempre più uguali. Perché sono morti per non morire. Gli anni Ottanta per loro sono cominciati nel 1978, con le sessioni di Some Girls che poi si riverberano sui dischi a venire: Rescue, Tattoo. Sì, vogliamo continuare a parlare di una vetta misconosciuta come Down in the Hole, che puzza di mendicanti sotto i ponti, di segnali stradali urlanti nella notte, della desolazione del destino, della disperazione di due chitarristi che non sanno che fare dei loro strumenti, eppure fanno. Down in the Hole, che è passata così, come una pisciata, e invece è lì per restare. Che non l'hanno mai fatta dal vivo perché sono dei delinquenti. Che è un buco che non si rimargina mai. Giù, nella depressione che solo chi l'ha scavata la conosce e quella, quella e non altra, è la musica, è il canto atroce, che mette paura, che alza la pelle, della malattia dell'anima, del cuore che muore. Così si aprivano gli anni Ottanta per i Rolling Stones, la cui versione forse non migliore, ma senz'altro più avvincente dal vivo, è stata proprio il canto del cigno tra il 1981 e il 1982 (quando, sette anni dopo, riemergeranno, saranno sempre loro ma saranno altri). Non è un caso che Let's Spend The Night Toghether sia il primo dvd ante litteram e quello tuttora più consumato, più masticato ad ogni raduno stonesiano, e allora che cazzo volete? Non è un caso che quel waving, l'interplay, chiamatelo come vi pare, si sia esaltato lì, in quella sventagliata di album tra Some Girl che annunciava una rinascita, cioè un cambiamento, Rescue che la confermava, Tattoo che la sublimava e Undercover che la sanciva. Undercover è l'ultimo album allegramente sgangherato, con quel suono torrido, ribollente, da gente che non sa suonare. Ardente, avvincente. Dopo verrà Dirty Work, che si salva malgrado l'efferatezza di Steve Lillywhite. Dirty Work, che è eccitante ma i segaioli degli-anni-che-furono non lo capiscono, non lo vogliono capire in quanto segaioli, non lo accettano che quei ragazzi invecchiati non sorridono, perché stanno cercando di non affogare. Nel mondo di plastica, negli anni Ottanta, in se stessi. Boccheggiano, eppure lo fanno lo stesso con una classe immensa. Basta la title-track, così furibonda e frenetica, a dire tutto. Basta Had It With You così punk che i punk se la sognano. E basta tutto il resto, perdio. E basta rompere i coglioni, se un disco così non vi piace, se Undercover non vi piace, se l'allegra depravazione di She's So Cold non la apprezzate (solo un imbecille può definirlo un brano minore), sapete dove dovete andare. E almeno chiedetevi come mai, oggi, negli anni Duemila, ogni volta che i vecchi teppisti fanno un brano pescato da quegli album lì, è un boato di eccitazione e di sorpresa, di gratitudine e di libidine. Vien da pensare che per ascoltare gli Stones, bisognerebbe meritarseli.
Massimo Del Papa & Christian Diemoz
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