essendo fresca fresca vi giro l'anteprima del mio parere sul disco, che andrà sul blog che di tanto in tanto mi pubblica - gratis - quindi, non faccio un torto a nessuno
Saluti
S
1. "She Makes Me Happy"
2. "Can't Stop Me Now"
3. "It's Over"
4. "Brighton Beach"
5. "Beautiful Morning"
6. "Live the Life"
7. "Finest Woman"
8. "Time"
9. "Picture In a Frame"
10. "Sexual Religion"
11. "Make Love to Me Tonight"
12. "Pure Love"
Bonus tracks
13. "Corrina Corrina"
14. "Legless"
15. "Love Has No Pride"
La stagione 2012/2013 è stata quella del ritorno in scena – in studio o dal vivo – di molti dei più grandi protagonisti della scena rock di sempre. Ho avuto come l’impressione che un’intera generazione di musicisti, la migliore che abbia mai calpestato la terra del nostro pianeta, prossima ai settant’ anni (alcuni di loro li hanno anche già superati…) abbia sparato probabilmente le sue ultime cartucce prima di ritirarsi a vita privata.
Così, Bowie rompe (e finalmente!) un silenzio durato 10 anni con l’ottimo The Next Day; Dylan pubblica The tempest (usatevi una cortesia, correte ad ascoltarlo!); Eric Clapton mette insieme un bel po’ di vecchi amici e dà alle stampe Old Stock; gli Stones festeggiano il mezzo secolo d’attività e muovono il culo, anche loro dopo un lungo letargo. Sebbene i due inediti che accompagnano la loro ennesima raccolta – GRRR - siano brani dimenticabili e dimenticati, la vera notizia è che sono tornati a fare concerti; Roger Waters riporta in tour The Wall; Neil Young pubblica, con i Crazy Horse, Psychedelic Pill; Knopfler esce con Privateering (che per quanto mi riguarda è già un classico); Paul McCartney mescola jazz e pop tradizionale nel recente Kisses on the bottom e così via…
Uno dei ritorni più attesi, almeno per colui che scrive, era quello di Rod Stewart. Monitorando quotidianamente la carriera del biondo, da ottobre scorso ero a conoscenza del fatto che il buon vecchio Rod stesse lavorando ad un nuovo album. La notizia in se non sarebbe delle più spettacolari, dato che la sua ultima uscita discografica è appena del 2009 (il disco di cover natalizie del dicembre 2012 che in America, manco a dirlo, ha stravenduto, neanche lo voglio tenere in considerazione). La novità vera, e che mi ha fatto attendere il tutto con trepidazione, è che il disco sarebbe stato composto da inediti usciti direttamente dalla penna di Rod.
Con una carriera che l’ha visto alternarsi (quasi) sempre con fortuna e successo tra l’interprete e il compositore - ed anche il crooner, ripensando i suoi Great American Songs Book – Time, l’album che ha visto la luce lo scorso 7 maggio, è il primo interamente composto da lui dai tempi di Out of Order, 1988. Fate voi i conti…
La curiosità è tanta, le aspettative alte.
Rod Stewart è stato all’altezza della situazione? Ve lo svelo da subito: per me, si!
Attenzione, non sto urlando al capolavoro; tuttavia, lo standard dei brani è medio alto e non sfigura troppo - ardua impresa - quando andiamo a fare l’inevitabile confronto con i lavori più recenti o meno del nostro. E qui arriviamo al nodo gordiano della faccenda, ed ovvero: ogni nuova creatura di queste leggende viventi – perché è tale lo status di cui a pieno titolo godono i tanti citati prima, incluso ovviamente Stewart – un po’ come accade alla prole dei campioni di ogni campo che finisce col cimentarsi nella stessa professione del genitore, deve fare i conti con una storia ingombrante, che ha già raggiunto picchi di inarrivabile grandezza e splendore, nel nostro caso artistici, musicali, culturali. Il che è allo stesso tempo un vantaggio ed una fregatura; un vantaggio perché hai le spalle piuttosto larghe, e puoi consentirti anche di partorire autentiche cagate, sei e resterai lo stesso Rod Stewart; ma è uno svantaggio pure, e si, perché sebbene ineccepibile quanto appena detto, d’altro canto se anche centrerai l’obiettivo, il tuo album sarà sempre lontano anni luce da quelli che furono i momenti migliori della tua carriera.
Premessa l’antinomia di cui sopra e tenendo presente che Stewart - 69 primavere il prossimo 10 gennaio e un patrimonio personale che supera di gran lunga le 100 milioni di sterline – avrebbe potuto tranquillamente restarsene qui
http://maps.google.com/maps?q=51.696515 ... ,0.026693t & =h&z=17 a godersi vecchiaia, quattrini, moglie ancora abbastanza giovane e bella ed ad organizzare partite di calcio insieme ad intimi amici nel campo che ben si vede dal satellite invece di rimettersi in gioco, e be’, tutto questo già predispone il mio animo in modo benevolo.
La temerarietà, il coraggio ed il persistere con passione, qualunque cosa si faccia, sono virtù oppure no?
Ed allora affermare che Time non è altro che una grande occasione mancata, come mi ci ritrovo a rimuginare, me per primo - perché non chiamare Ron Wood a collaborare? o Jeff Beck? sai che fuochi d’artificio! - è tanto vero quanto ingeneroso.
Prodotto dall’ autore stesso ed edito dalla veterana Capitol Records, ecco a voi il “ritorno” di Roderick David Stewart, ed ecco cosa ne penso.
Scelto come singolo trainante per il mercato americano – dove Billboard ce lo segnala già al 14° posto in classifica – She makes me happy detta l’umore ed il suond di tutto il disco. Nel caso specifico, un po’ troppo prevedibile nelle rime e nella sostanza (she makes me happy on the coldest day, she makes me happy when the clouds are grey…), è un rock commerciale che ben si presta ai passaggi radiofonici – se siete soliti ascoltare la radio, sono certo che vi ci sarete già imbattuti. Qua e là, ora il violino, ora le chitarre acustiche, paiono evocare il classico dei Faces nella rivisitata versione di Stewart solista, Oh la la. Ma non cominciamo con i paragoni, altrimenti non ce ne usciamo più! Il video è carino.
Can’t stop me now nella versione studio suona troppo alla Jon Bon Jovi (che dio me ne scampi e liberi!!!), live acquista qualche punticino in più. Ottimista e rassicurante nel messaggio. Ok Rod, nessuno si sogna di fermarti proprio adesso, ma la prossima volta almeno Ron Wood me lo vuoi chiamare a collaborare?
A chi stava pensando? Perché questo mi chiedo non appena attacca It’s over. Selezionato come singolo per il mercato europeo, questa ballata dell’amore perduto, così sincera e spontanea sia nel cantato di Rod che nel testo stesso, fa a cazzotti col la recente biografia del nostro, da dieci anni ormai felicemente (e, udite udite, pare anche fedelmente…) sposato con Penny Lancaster.
Tant’è, con questa hai centrato l’obiettivo! Si, questo è lo stesso autore che ha scritto Gasoline Alley e Farewell, chapeau! “Tutti i progetti che avevamo sono finiti in fumo e andati per sempre, avvelenati da lettere d’avvocati – E’ finita. Sei stata mia moglie, la mia amante, e’ finita”. Anche questo brano è stato accompagnato da un video, più bello dell’altro, in cui vediamo Stewart che canta mentre passeggia lungo una spiaggia in pieno inverno, cielo grigio e mare burrascoso a sottolineare il dramma di un matrimonio distrutto ben descritto nel testo. A tutti gli effetti, una buona canzone. Resta il dubbio fondato che il tutto sia frutto più di una calcolata e consumata maestria che di una sana ispirazione.
Segue la ballad Brighton beach e qui abbiamo meno dubbi circa la fonte di ispirazione. Stewart rievoca un’avventura bohemien dei bei tempi andati - I remember when you were only 17 - vissuta nella più nota località balneare del Regno Unito. Promossa.
Backbeat in stile Motown e cori dalla tinte suol in Beautiful morning.
Mandolino in dissolvenza, violino ed acustiche in bella mostra in Live the life. La voce graffiante del nostro eroe fa il resto, suggellando la riuscita di un folk rock molto stile Stewart. Ci sta.
Finest woman, pubblicamente dedicata alla moglie durante alcuni show in America, presenta gli stessi limiti del primo brano. La sezione fiati durante il ponte gli conferisce un po’ più di swing, ma non decolla mai. No, passiamo oltre.
Molto meglio la ballad che dà il titolo all’album – Time. Piano elettrico e chitarre in distorsione, tanto che a tratti pare un pezzo dei Faces ma, ma… porca miseria Rod! il ritornello è letteralmente fregato a Time waits for no one dei Rolling Stones! Andate a verificare e vedrete se mi sbaglio. Me ne accorsi già ascoltando la preview del disco su youtube, una manciata di secondi per ogni canzone. Ero certo che, data l’attitudine di Stewart con le cover, si trattasse proprio di questo, in omaggio ai vecchi compari degli Stones. Macchè, se l’è accreditata tutta per lui! Episodio curioso e divertente, anche perché non riesco proprio a credere che quel vecchio volpone di Rod ignori beatamente il brano dei suoi colleghi… Per il momento, nessuno s’è lamentato.
Si diceva delle cover. Che album di Rod Stewart sarebbe senza neanche una? Picture in a frame di Tom Waits – già gli prestò, ai tempi, Downtown train - è un altro momento glorioso. Ballad solo piano, ricca di silenzi che ne amplificano la profondità, è la giusta passerella per esaltare ancora una volta la voce più sorprendente e affascinante del rock (è la sua, mettetevi l’anima in pace fan di Mercury, di Tyler e di Brian Adams!). Peccato per gli arrangiamenti orchestrali che ad un certo punto irrompono in scena, rendendola un po’ troppo pomposa; avrei lasciato che il brano scivolasse via col solo pianoforte, il contrabbasso, le spazzole sulla batteria e qualche nota dell’acustica, ma è un gusto personale.
Il sesso e le donne sono sempre stati temi cari a Rod Stewart, riguardo i quali in passato s’è espresso, per la gioia delle femministe, con pezzi irreverenti ed un po’ oltraggiosi firmando tuttavia pagine memorabili sull’argomento. Non è assolutamente questo il caso di Sexual religion. Forse a voler ricordare il suo periodo disco, Rod ci propina una storia melensa circa la sua totale dipendenza dalla figa di qualche donna, il tutto, in salsa Spice Girls o Britney Spears se preferite. Direbbe Totò: me lo scusino signori, me lo scusino. Imbarazzante.
Riprendiamo fiato con Make love to me tonight, dove violini, slide guitar ed organo si impastano in una ballad folk dalle atmosfere celtiche tanto care al nostro amico “scozzese”. Piacevole, da ballare con la donna dopo qualche bicchiere di rosso.
Pure love è un altro lento suonato al piano, stavolta a firma Stewart. Niente male, per quanto anche qui, personalmente, avrei evitato l’orchestra.
Saluta un lavoro che aveva il gravoso impegno di confrontarsi con una carriera discografica che ha già dato tutto il possibile ed anche di più, e ciononostante ne esce bene e non troppo ammaccato per questo.
Ci sarebbero pure tre bonus tracks.
Mi piace pensare che, tra le altre, la scelta di interpretare Corrina Corrina, immortale standard blues suonato da generazioni di musicisti, sia stata fatta col pensiero rivolto ai vecchi fan, quelli la cui anima sorride di gioia ogni volta che riascoltano album quali Never a dull moment, Gasoline Alley o Smiler, quando il blues ammiccava al rock’n’roll e le canzoni sembrano fatte di cuore, lacrime e sudore.
Se siete uno di questi, vi sfido ad ascoltare la voce post coito di Rod invocare l’amante Corrina Corrina, gotta we been so long? baby, please come home! senza che un compiaciuto sorriso di soddisfazione vi si disegni sulla faccia!
Ah, non vedo l’ora di rivederti a Dublino il prossimo 29 giugno!
Magari poi ve lo racconto.