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Indice  ~  Get Off Of My Cloud  ~  The Who

MessaggioInviato: 1 aprile 2009, 19:51
Avatar utenteMessaggi: 3987Località: MilanoIscritto il: 23 marzo 2008, 12:49
The kids (now) are alright: Who più vicini 'grazie' alla morte di Entwistle



L'improvvisa e tragica scomparsa di John Entwistle, avvenuta nel 2002, è stata probabilmente fondamentale per la continuazione della carriera degli Who. L'ha rivelato Pete Townshend, il quale ha spiegato al quotidiano australiano "Sydney Daily Telegraph" che fu proprio la morte di John a farlo avvicinare a Roger Daltrey. Townshend ha detto: "La morte di John nel 2002 fu una componente nella decisione di riprendere a fare dei tour veri. Il tour del 2002 era l'ultimo che avevo intenzione di fare con il gruppo, e la mia missione era quella di far soldi a sufficienza per tirare John fuori dai debiti. Ma morì il giorno prima dell'inizio della serie di date. Mi sembrò in un certo senso un gentile regalo da parte di John, il massimo dell'umorismo, sebbene ovviamente la sua morte sia stata un fatto tragico. Io e Roger ci trovammo scaraventati insieme. Fino ad allora avevamo avuto rapporti amichevoli e di rispetto, ma non eravamo mai stati grandi amici. Eravamo sempre stati molto diversi, sia come idee sia sul lavoro. E, con John che non c'era più, ci siamo trovati per conto nostro. Senza più distrazioni, senza più scuse. Dovevamo decidere se andare avanti, noi due da soli, o cogliere l'opportunità per fermarci. Improvvisamente compresi che volevo andare avanti".
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MessaggioInviato: 9 settembre 2009, 9:32
Avatar utenteMessaggi: 3987Località: MilanoIscritto il: 23 marzo 2008, 12:49
Roger Daltrey ha affermato che ci sarà un nuovo album degli Who. Intervistato da fonti USA, il cantante (Londra, 1° marzo 1944) ha rivelato che tra gli scopi principali del suo tour solista "Use it or lose it" c'è quello di affinare la propria voce in vista dei demo che assemblerà nel prossimo dicembre. La serie di date del rocker inizierà il prossimo 10 ottobre da Vancouver. Daltrey ha affermato che il partner musicale Pete Townshend sta già lavorando su alcuni demo, poi toccherà a lui. "Chissà, potrebbe venirne fuori il nostro miglior lavoro", ha detto. "Ma come tempi non so, magari andremo avanti a fare demo anche per sei mesi. Vedremo". Townshend, come riferito pochi giorni fa da Rockol, è intanto attivo sul suo nuovo musical intitolato "Floss". "Questo musical rappresenta una nuova sfida per me. Le canzoni che sto componendo per la colonna sonora saranno poco convenzionali per questo genere teatrale in quanto prevedono complicati effetti speciali e montaggi sonori inusuali", ha affermato il chitarrista.
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MessaggioInviato: 9 settembre 2009, 17:26
Avatar utenteMessaggi: 1250Località: milanIscritto il: 26 luglio 2006, 11:09
Sinceramente non saprei cosa dire...
sono uno dei miei gruppi preferiti
li ho visti dal vivo in america,in uno stadio,bello,però...
oggi,forse meglio ricordarli con quello che abbiamo,voglio dire,dubito facciano qualcosa di meglio di quello già fatto,
anche se vedere Pete suonare in studio in Being Mick,ti mette sempre i brividi...


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MessaggioInviato: 9 settembre 2009, 19:06
Messaggi: 4076Località: SALERNOIscritto il: 5 maggio 2008, 23:29
L'accoppiata "Who's next"-"Live at Leeds" e' un uno-due da K.O....Eppoi Quadrophenia, Tommy...La loro energia primordiale, Pete che rotea il braccio (da chi l'avra' imparato?!?),Moonie che sfascia la batteria, la voce di Roger, John che e' l'equivalente di Bill statuario e regale allo stesso tempo a reggere il grattacielo...Che band gli Who,ragazzi..."Baba O'Riley" mi da una carica ogni volta che la ascolto...La voce,l'intro di chitarra,ma sopratutto l'entrata della batteria di Moonie che letteralmente "Canta"!Lunga vita agli Who!!

P.S.Raga',ma dove sono piu' Band del genere!?!


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MessaggioInviato: 10 settembre 2009, 2:16
Messaggi: 3784Iscritto il: 7 luglio 2006, 14:44
Potentissimi dal vivo, ancora più che su disco. Who's Next è uno dei dischi più belli che abbia mai ascoltato in vita mia, più lo ascolto e più mi piace, infatti prenderò il vinile quando lo beccherò a un prezzo ragionevole. Gli altri album mi piacciono parecchio, ma come Who's Next nessuno, mi ha aiutato nella mia formazione musicale, è stato molto importante per me.
E aggiungo che non mi dispiace la versione Baba O' Riley suonata a New York nel 2001, in quel concerto in memoria delle vittime delle torri gemelle.
Sono felice per il nuovo disco, sarà un'opportunità per vederli finalmente!


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MessaggioInviato: 10 settembre 2009, 8:27
Avatar utenteMessaggi: 4253Località: ladispoliromaitaliaeuropamondoIscritto il: 9 gennaio 2008, 22:17
[quote="mailexile"]
e gia',purtroppo credo piu' da nessuna parte


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MessaggioInviato: 11 settembre 2009, 22:26
Messaggi: 2144Località: trevisoIscritto il: 24 febbraio 2006, 0:28
Anche Live at Leeds è fenomenale,hanno una potenza mostruosa sul palco,Gli Who.a mo parere,hanno uno dei suoni più britannici che esistono,cieli grigi e rabbia.


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MessaggioInviato: 12 settembre 2009, 1:02
Avatar utenteMessaggi: 4404Località: CelleIscritto il: 18 settembre 2006, 13:04
anche qui non posso che darti ragione, non so com'è, ma non si può immaginae questo suono a prescindere da britannia, cielo grigio e rabbia


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MessaggioInviato: 12 settembre 2009, 1:28
Messaggi: 2144Località: trevisoIscritto il: 24 febbraio 2006, 0:28
E Quadrophenia? Sembra di sentire il mare a Brighton


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MessaggioInviato: 17 gennaio 2011, 12:17
Avatar utenteMessaggi: 4042Località: Turate (CO)Iscritto il: 15 giugno 2006, 18:11
THE WHO IL MASSACRO DI SAN VALENTINO
di Claudio Todesco
San Valentino, 1970. Gli Who mettono a segno una delle loro esibizioni migliori, un concerto immortalato in un disco dal vivo destinato a entrare nella storia. JAM racconta importanza e retroscena dell'«olocausto rock» che oggi è diventato un lussuoso cofanetto. Ecco le ragioni della grandezza dei quattro sul palco, le altre esibizioni memorabili, un'intervista a Pete Townshend. Alzate il volume

L'uomo ha una voce delicata, femminea, nasale. Canta: «Un giovane non ha niente al mondo d'oggi. Ho detto: un giovane non ha niente al mondo d'oggi». Mette le mani sul pianoforte. Ha un tocco leggero e jazz. Insinua il messaggio con buona creanza, mentre il batterista suona con le spazzole. La musica cessa: «Un tempo la gente indietreggiava davanti a un giovane in forza», mentre oggi «i vecchi si sono presi tutti i soldi». Prima di rimettersi a cantare, il musicista distribuisce altre note sulla tastiera: è una piccola punteggiatura ed è inconfondibilmente blues. Se è una rivendicazione generazionale, è amara. Il «giovane in forza» di cui canta Mose Allison è una figura di un passato che appartiene al mito. Solo a pensarci viene il blues.
Tredici anni dopo, Young Man Blues ricompare sul palco di Leeds dove si esibiscono gli Who. È irriconoscibile. Quest'altro cantante non ha niente di femmineo: è un ex operaio che sbraita come un hooligan. Il chitarrista cava dallo strumento un suono metallico e distorto che sega i nervi. Il batterista parrebbe vittima di una sindrome da iperattività. Il bassista plasma note dense e scure. Le parole della canzone non cambiano: è l'attitudine che le rende diverse. «Un tempo la gente indietreggiava davanti a un giovane in forza», canta Roger Daltrey con voce arrochita e minacciosa, mentre il trio smette di suonare lasciando espandere nell'aria le vibrazioni di un accordo pesante e intimidatorio. Daltrey non evoca un passato remoto: in quel momento è il ragazzo che ti fa indietreggiare. È tornato per vendicarsi. È il tizio carico di rabbia che non vorresti incontrare. Uno che non ha paura di niente e si prende quel che vuole. Uno pronto alla rivolta. Nelle mani degli Who Young Man Blues non è più un blues, ma un'affermazione rabbiosa. Se Allison dava l'impressione di contemplare il passato con la rassegnazione di chi non ha potere di fronte al proprio padre, gli Who il padre l'hanno metaforicamente ammazzato.
Per certi versi Young Man Blues è Live At Leeds. Rappresenta gli Who del 1970. Ha quel tipo di feeling. Rompe con la musica del passato, alza il volume della rabbia, dice che il rock non sarà più lo stesso.
Mette paura.


Una foto ingiallita: un palco minuscolo, lampadari conici, due muri di amplificatori Marshall e Wem, un telo come sfondo, un enorme gong. Sul pavimento sedie ammonticchiate, qualche tavolino, aria da refettorio in dismissione. Il concerto degli Who a Leeds è fatto della stessa materia di cui sono fatti i miti, ma il luogo in cui fu inciso non ha niente di speciale. Non è una sala dai drappi damascati, né una cantina in cui il rock è stato forgiato picchiando sugli strumenti, né uno di quei posti che trasudano storia. È un'anonima sala da pranzo di un'università.
Il gruppo ci arrivò nel mezzo di una trasformazione epocale: sua e del rock intero. Da interpreti chiassosi dei classici rhythm & blues a fautori della trasformazione del rock in un veicolo espressivo "serio", e ancora comprimari sui palchi dei festival inglesi e americani, gli Who erano giunti sulla soglia del 1970 da assoluti protagonisti. Il titolo di «maggiore gruppo rock al mondo» era a portata di mano. Solo nove mesi prima avevano pubblicato l'album capolavoro Tommy. La fama dell'opera surclassava quella del gruppo: su certi cartelloni pubblicitari erano diventati Tommy And The Who. «Le chitarre distrutte e tutta quella roba era stata dimenticata», si lamentava John Entwistle. «C'eravamo trasformati in snob del rock, il tipo di band che Jackie Onassis avrebbe potuto apprezzare. La cosa non mi piaceva». La cosa non piaceva a nessuno. Gli Who avevano bisogno di dare una lezione a Thomas. Decisero di farlo con un concerto che avrebbe coniugato la carica vitale delle esibizioni anni 60 col volume dei neonati 70, che avrebbe incendiato la musica del passato proiettandola nel futuro: un olocausto rock, nella celebre definizione del New York Times. È che stava cambiando l'idea stessa di concerto. Le esibizioni si allungavano, gli amplificatori erano sempre più potenti, la rabbia si faceva assordante. Stavano mutando anche gli Who, che nel giro di tre anni avevano sviluppato un repertorio tale da tenere il palco per oltre 2 ore. Erano migliorati tecnicamente, suonavano musiche più complesse, avevano trovato una voce che li avrebbe caratterizzati per tutto il decennio. E Pete Townshend aveva suonato talmente a lungo la Gibson SG che «le mani andavano più veloci del cervello». Era il momento giusto per incidere il disco che il chitarrista desiderava da sempre: un live in America dove «in poco tempo abbiamo compiuto quel che in Inghilterra avevamo fatto in tre anni».
Nell'ottobre del 1969 gli Who erano partiti in tour per gli Stati Uniti. Il fonico Bob Pridden aveva registrato ogni singolo show, compresi i sei di fila al Fillmore East di New York, dove la band s'era esibita di fronte a Bob Dylan. Nel backstage del locale Leonard Bernstein aveva praticamente abbracciato Pete Townshend. Sovreccitato da Tommy, il compositore e direttore d'orchestra aveva preso il rocker per le spalle e l'aveva scosso come un pupazzo: «Ti rendi conto di quel che stai facendo? Ti rendi conto di che meraviglia è?». Il chitarrista era tornato in Inghilterra con 80 ore di registrazioni da ascoltare e selezionare. Il 6 gennaio Damon Lyon-Shaw dello studio londinese IBC aveva preparato un mix dei concerti di ottobre con due versioni di Young Man Blues, I Can't Explain, le cover di Fortune Teller, Summertime Blues e Shakin' All Over, Tattoo, My Generation. Pridden non si decideva a indicare una track list o una particolare serata che si elevasse sopra le altre. Frustrato, Townshend gli chiese di fare un falò di tutto quel materiale per scongiurare la pubblicazione di bootleg non autorizzati e di affittare un registratore a 8 piste per i concerti del weekend successivo: il 14 febbraio all'Università di Leeds e il 15 alla Hull City Hall. A quanto pare fu il manager Kit Lambert a scegliere due luoghi provinciali perché «la squallida vita in tour» non poteva essere rappresentata da un live in una sala prestigiosa. I biglietti per Leeds andarono esauriti in poche ore: le foto d'epoca ritraggono la lunga coda che si formò sin dal mattino. La provincia amava gli Who.
Lì Townshend trasformò parzialmente il suo stile: agli accordi potenti e alle pennate che rappresentavano il suo modo di suonare e la sua rappresentazione visiva affiancò improvvisazioni che somigliavano ad assoli canonici. «Suppongo fosse l'influenza di Hendrix a spingermi a suonare in quel modo», ha spiegato. «Fino a quel punto della mia carriera non ero interessato a suonare singole note per competere con Jeff Beck, Eric Clapton o Jimmy Page. Ho cambiato idea ascoltando Hendrix e scoprendo la Gibson SG». Quella chitarra aveva «una qualità lirica» ed era adatta al suono che Pete andava cercando per interagire con lo stile «indisciplinato» di Moon. Il suono della SG del 14 febbraio è effettivamente fantastico. Del resto, è stato mixato direttamente dal chitarrista nello studio privato dov'era solito registrare i demo: «Quel che lo distingue da altri mix degli Who» ha detto a Classic Rock «è il volume della chitarra elettrica» che ha effettivamente una presenza quasi "fisica" dirompente. «Il nostro concerto è una prestazione atletica», disse Townshend il giorno del concerto alla rivista universitaria di Leeds, «e ha bisogno di un volume alto. Vogliamo suonare possenti ed eccitanti». Anche Moon era all'apice della carriera, a metà strada tra la giovinezza in salute e la maturità tossica. «Seguiva quel che facevamo io e John. Roger pensa, col senno di poi, che reagisse anche a quel che cantava lui. Era ovunque, in quei giorni, eppure suonava con sentimento. Avevamo un'energia infinita».
Live At Leeds trattiene e rilascia quest'energia bruciante, la forza compressa di tre musicisti e un cantante che suonano in una piccola sala: la sintesi estrema dell'esperienza rock. «Musicisti che si ascoltano e che suonano per un pubblico attento», secondo le parole del chitarrista. Entwistle ricordava che «non amiamo i posti grandi... il massimo negli Stati Uniti sono state 5 mila persone. Di più renderebbe l'esperienza irreale per gran parte del pubblico». Presto gli Who avrebbero fatto un salto nell'iperrealtà. Intanto, continuavano a suonare in sale meno capienti, per la metà o per due terzi del cachet che avrebbero potuto esigere in posti enormi. A Leeds guadagnarono 1.000 sterline. Lì, dice Townshend, «potevamo usare una dinamica più ampia, non eravamo costretti a fare affidamento sulla celebrazione, sugli inni da stadio. È vero che Roger era il nostro re dello stadio, incoronato a Woodstock, ma entrambi abbiamo sempre preferito le sale di capienza media».
Con la sua strafottenza teppistica, il volume assordante, l'energia esplosiva, il senso d'eccitazione, e soprattutto la musicalità che si lasciava alle spalle certe ingenuità del passato, il concerto apre gli anni 70 facendoci scorgere la faccia che il rock assumerà nel decennio, quando anche gli Who si arrenderanno ai pubblici oceanici: è il momento di passaggio del rock dai club agli stadi, da una scena dominata dai Beatles a quella dei Led Zeppelin, dalla british invasion all'hard rock. Anche il repertorio del concerto sembrava una celebrazione e al contempo un addio agli anni 60. Le influenze primigenie emergevano nelle cover di Eddie Cochran e Johnny Kidd, il passato del gruppo in "vecchi" pezzi come I Can't Explain e Substitute, la nuova stagione era rappresentata da Tommy, suonato in versione quasi integrale. Townshend lo introduceva come un'opera pop, «che la fa sembrare una cosa tipo La Scala», e chiedeva scherzosamente al batterista di assemblare i musicisti. «Basta sghignazzare», diceva Moon. «Questa è roba seria: è una cazzo di opera, capito?». Era roba seria, ma non in quel senso: basta ascoltare a Leeds la fenomenale esecuzione di Sparks, la dinamica fra gli strumenti, i cambi di passo, l'interazione tra chitarra e basso, i suoni tonanti, le distorsioni controllate, i tappeti e i fill del batterista. «Avevamo raggiunto il top dopo avere portato Tommy sul palco per intero, o quasi», ha spiegato Daltrey. «Ci ha dato una dinamica che non abbiamo mai perduto: quando ce l'hai, la musica diventa eccitante e sperimentale. Cose nuove avvenivano quasi a ogni concerto». Al tempo, ha detto Rick Wakeman degli Yes, «gli Who erano il gruppo più rumoroso al mondo. Avevano appena conquistato l'America e suonato a Woodstock. Tommy era stato accolto come l'opera di un genio. E che fanno? Arrivano all'Università di Leeds e registrano quello che considero il miglior disco dal vivo di sempre».


Non esiste una cosa come «il miglior disco dal vivo di sempre». Se esistesse, Live At Leeds sarebbe tra i candidati più accreditati. La ragione non sta nella qualità di scrittura delle canzoni - in fondo nel 33 giri originale non ci sono composizioni capolavoro - ma nel carattere travolgente delle performance e nella fisicità del sound. «Il bilanciamento dei suoni e il posizionamento dei microfoni era stato perfezionato durante il tour americano», ha spiegato Keith Moon. «Con Bob avevamo sperimentato muovendo avanti e indietro sul palco i microfoni». Il banco di ripresa era posizionato nella cucina al piano di sotto. «Gli studenti erano un ottimo pubblico», ha ricordato Daltrey, «e il posto era stipatissimo. Mi dissero che c'era gente persino sul tetto». In sala c'erano 2 mila persone: un microfono sopra la loro testa ne catturava gli applausi, ma alla fine i rumori della folla furono eliminati perché considerati «distraenti». Alcuni microfoni non furono connessi correttamente, causando rumori fastidiosi che furono inclusi nella stampa originale (e tolti in quella digitale).
Se è vero, come ha detto Townshend al New Musical Express, che «lo show di Leeds è uno dei nostri migliori di sempre», per anni si è creduto che la data successiva di Hull fosse persino migliore, un mito alimentato da certe dichiarazioni di Daltrey. Lì del resto doveva essere inciso il disco: Leeds era considerata una data di riscaldamento e di riserva. «Gli Who incidono un lp a Hull!», titolava l'Hull Times del 6 febbraio. Quando si trovarono a riascoltare le registrazioni del 15, gli Who scoprirono che per un problema tecnico il basso di John Entwistle non era stato registrato. Live At Hull divenne Live At Leeds. Ora il concerto del 15 rivede la luce all'interno di un cofanetto contenente l'integrale di entrambi gli show, il vinile originale e una serie di gadget. Il riascolto dei nastri originali di Hull ha chiarito che il basso mancava solo nella prima bobina, per un totale di 6 canzoni. «Non ebbi la pazienza di ascoltare tutta la registrazione», ha ammesso Townshend. La tecnologia digitale ha permesso di restaurare i pezzi sovrapponendo con Pro Tools le tracce di basso del 14 alle performance del 15, una soluzione adottata anche per coprire un buco nella registrazione di 20 secondi durante l'esecuzione di Tommy. «A Hull non facemmo errori. Ed ero sobrio, mentre a Leeds mi ero fatto un paio di bicchieri», ha detto Townshend. L'artista però non ha granché a che fare con la riedizione mixata da Pridden e Richard Whittaker «che per i miei gusti hanno lasciato la chitarra troppo bassa», depotenziando effettivamente la carica dell'esibizione. Anche la performance di Daltrey sembra meno potente e il pubblico, dicono le cronache, era meno partecipativo: nell'introdurre Fortune Teller il cantante sembra parlare al vuoto, ma Pridden afferma che potrebbe essere per via del posizionamento scorretto di un microfono.
Sentire quel che accadde a Hull conferma l'idea che gli Who del 1970 erano in stato di grazia e che Leeds non era stato un colpo di fortuna. L'ascolto del concerto - quasi identico nella scaletta a Leeds, al netto dell'assenza di Magic Bus nei bis e con una versione di My Generation violenta ed espansa fino a un quarto d'ora di durata - suggerisce una ridefinizione dell'«olocausto» di quelle serate. Al contrario del rock duro che nasceva in quel periodo, c'era una nota di fragilità dietro l'aggressione sonora messa in scena dagli Who. Se erano teppisti, era perché la vita li aveva feriti. Un introverso genialoide, uno spostato, un holligan e un ragazzo complessato: c'era della sensibilità nascosta dietro la brutalità, e la stessa cosa non si può dire di molti gruppi che avrebbero alzato il volume di Leeds. Forse è per questo che la musica degli Who, anche nella sua imperfetta proiezione live, crea una connessione emotiva potente e profonda.
Pubblicato il 23 maggio 1970 e contenuto in una copertina in stile bootleg disegnata sul modello dell'ellepi pirata Liver Than You'll Ever Be dei Rolling Stones, Live At Leeds raggiunse il terzo posto della classifica britannica, alle spalle di Let It Be dei Beatles e Bridge Over Troubled Water di Simon & Garfunkel. All'epoca non c'erano in giro molti album dal vivo: questo era imbattibile e apriva la strada alla lunga serie di live che sarebbero stati pubblicati nel decennio. «Molto semplicemente, uno dei grandi dischi rock», scriveva il Record Mirror nel giugno 1970.
Molto semplicemente, uno dei migliori gruppi rock dal vivo di sempre.


E se fossero stati il caso e le carenze a iscrivere gli Who nel novero dei grandi performer? Non solo il talento e la voglia di testare i limiti del rock, ma anche una serie di fortunate coincidenze hanno creato l'amalgama speciale che ha dato vita a esibizioni memorabili. È stato il caso ad assemblare personalità tanto differenti. Sono stati la genialità e decine di esibizioni dal vivo a trasformare quel miscuglio improbabile in un marchio sonoro originale.
In anni di attività gli Who hanno sviluppato un interplay che qualcuno ha paragonato alla telepatia. Eppure i quattro emergono da quella massa sonora dotati ognuno di una personalità forte e distinta. Funzionano come unità, ma se si ascoltano attentamente le loro registrazioni live migliori è facile capire che si tratta in definitiva di solisti dotati di una voce caratteristica. Non è una questione di abilità tecnica. Secondo Townshend, «Live At Leeds è il nostro momento virtuosistico, ma era una competizione in cui non avevamo alcuna speranza di trionfare. John Entwistle era l'unico vero virtuoso del gruppo. Noi altri tre eravamo intrattenitori, affabulatori e atleti. Usavamo rumore, urla, laser e fumi, mentre le altre band semplicemente suonavano». Troppa modestia. Non era solo fumo negli occhi, ma è vero che dal punto di vista strettamente tecnico il chitarrista non aveva alcuna possibilità di competere con i grandi dello strumento che s'erano affacciati in quegli anni sulla scena, Eric Clapton, Jeff Beck, Jimi Hendrix, Jimmy Page. Quest'ultimo era talmente avanti da essere chiamato come chitarrista "ombra" nella session degli Who in cui fu registrato il 45 giri d'esordio I Can't Explain / Bald Headed Woman (1964). In quanto a Hendrix, nel dicembre del '66 Townshend andò finalmente a vedere il nuovo fenomeno della chitarra che s'aggirava per Londra. La gente continuava a dirgli che quel tipo gli aveva rubato i trucchi di scena, che avrebbe dovuto dirlo, all'americano, che quella era roba sua. Pete non consumò alcuna vendetta, non rivendicò alcuna primogenitura. Uscì dal locale preoccupato: «Non sarei mai riuscito a suonare neanche lontanamente in quel modo».
Townshend trasformò la carenza in un punto di forza: mise tutto il suo talento nel dare corpo ad accordi potenti ed esplosivi. Fece leva sul volume e sull'impatto. «Non riuscendo a suonare in modo corretto, costruii

il mio stile attorno agli accordi». Divenne un sostenitore dei cosiddetti power chords, i bicordi ottenuti eliminando la seconda nota della triade, una scelta ma anche una necessità dettata dagli effetti della distorsione. Essendo l'unico chitarrista del gruppo, imparò a integrare parti soliste e ritmiche, dando alle seconde la rilevanza delle prime. «L'ho visto tirar fuori dalla chitarra note come un meccanico che strizza uno straccio per far colare l'olio», ha detto Eddie Vedder dei Pearl Jam, «ho visto la chitarra animarsi e diventare un essere vivente dal corpo torturato e dal collo strozzato».
Non lo puoi fare senza l'aiuto di un suono mostruoso. Gli Who hanno contribuito al progressivo aumento dei volumi sonori. «Stare in un gruppo rock significava combattere una guerra psicologica», ha spiegato Daltrey. «Ci piaceva l'idea di avere le casse più grandi che potessi vedere, anche se dentro c'era un piccolo speaker da 12 pollici». Gli altoparlanti, in realtà, diventavano davvero più potenti: Townshend ed Entwistle sono accreditati tra i musicisti che hanno istigato i tecnici della Marshall a sviluppare amplificatori sempre più grandi. Il chitarrista rivendica pure il ruolo di pioniere del feedback, «una tecnica che ho abbandonato per concentrarmi sulla scrittura».
Col suo stile eterodosso e la personalità musicale fiammeggiante, Keith Moon era al tempo stesso la spalla, l'antagonista e l'interlocutore del chitarrista. Il suo stile frenetico, fatto di scariche di tamburi e di fills imprevedibili, era una anomalia nel rock inglese dell'epoca, dominato da batteristi tutt'altro che energici come Ringo Starr o Charlie Watts. L'uso intenso dei tom-tom più che dei piatti e il rifiuto di limitarsi a offrire una pulsazione ritmica regolare contribuì a dargli una voce preminente senza avventurarsi nei classici assoli alla John Bonham. Qualcuno ha scritto che Moon «suonava la batteria come se fosse stato il cantante o il chitarrista». O come un pugile. La suonava con un trasporto imprevedibile e disordinato, di una vitalità quasi irresponsabile. Non avrebbe potuto fare altrimenti: a quanto pare, era in difficoltà quando era costretto a suonare parti metronomiche, e questo potrebbe spiegare perché non è mai diventato un session man. Moon non suonava solo con Entwistle, il quale seguiva con difficoltà le sue divagazioni e la sua incapacità di tenere propriamente il tempo. Suonava con Pete Townshend. A volte si ha la sensazione che lo facesse contro di lui, un controcanto che s'inseriva fulmineo tra i suoi accordi potenti, sottolineandoli e riempiendo gli spazi da essi creati. Entrambi destabilizzavano la propria musica, come se un'atmosfera di sospensione potesse aumentare l'eccitazione della performance. In Moon. The Life And Death Of A Rock Legend, Tony Fletcher associa il senso d'incertezza creato dal batterista all'abitudine del chitarrista di suonare un accordo in cui la nota centrale della triade è una quarta, lasciando l'ascoltatore nell'incertezza su quando si sarebbe risolta scendendo sulla terza, uno stratagemma imparato ascoltando il compositore inglese del Seicento Henry Purcell. «Keith era brillante», ha commentato Entwistle, «ma lo sarebbe stato molto di più se si fosse fermato a riflettere su quel che faceva. Non ha mai cercato di comprendere le ragioni della sua stessa grandezza. Era un batterista naturale», che è come dire che il suo stile era in funzione della sua personalità e non dell'efficienza tecnica.
C'è un'altra cosa che ha detto il bassista: «Gli Who hanno costruito la propria musica per integrarsi l'un l'altro». Lo stile di Entwistle è parte importante di questa miscela, ed è un'altra ragione della grandezza degli Who dal vivo. «Keith lo puoi imitare e Zac Starkey lo fa», ha detto Townshend, «ma John è insostituibile». In ogni esibizione del gruppo, è il musicista verso cui bisogna tendere le orecchie. Il suo lavoro è pregiato, ma non sempre è immediatamente riconoscibile. Il suo stile al basso elettrico è dinamico, i suoi accompagnamenti somigliano a piccole improvvisazioni, il registro è spesso più alto di quello che ci si aspetterebbe da un bassista. Straordinariamente efficace, ma non appariscente, aveva cercato di trasporre sul suo strumento le parti basse di Duane Eddy: l'idea che il basso potesse diventare solista nel rock nacque quindi dall'ascolto di un chitarrista. Le parti melodiche erano un complemento degli accordi di Townshend, il volume del suo strumento, amplificato da muri di Marshall, era invece in funzione dello stile di Moon. «Cercavo di reagire alle parti impazzite di Keith», ha detto a metà anni 90, «e lui cercava di adattarsi al mio stile. Avevamo solo una chitarra, un basso e una batteria: si trattava di cercare di colmare tutti i buchi». Il risultato dell'interazione dei tre strumentisti con Daltrey, il grido rabbioso di un teppista che stava diventando sempre più espressivo dovendosi confrontare con le creazioni sofisticate di Townshend, era il rumore glorioso tipico delle migliori esibizioni degli Who. Sembravano preda di spinte entropiche: quando riuscivano a cavalcare il caos, diventavano esplosivi.
Nei momenti migliori, gli Who trasmettevano un senso di rischio, di pericolosità, un fatto che si traslava perfettamente nella loro forza scenica. Sono sempre stati un gruppo da vedere, non solo da ascoltare, e anche questo ha contribito al loro mito. Il lato fisico delle performance - movimenti, salti, acrobazie, lanci di microfoni e strumenti, ragazzate cui solo Entwistle si sottraeva - non era solo un modo per trasformare in gesti la plasticità della musica. Per Townshend era anche una maniera per distrarre il pubblico. «Ho iniziato a suonare la chitarra per via del mio nasone», ha detto. E ancora: «Volevo che guardassero il corpo, non il viso». Ecco un altro punto debole trasformato in un tratto di forza. E anche un modo di comunicare con la forza dirompente del "neonato" linguaggio rock. «Sul palco riflettevamo come uno specchio lo stato d'animo dei ragazzi, ne catturavamo frustrazione e aggressività». Il comportamento riottoso trovava l'acme nella distruzione di chitarra e batteria, un altro tratto tipico degli Who nato per puro caso. Nel settembre del '64 il quartetto si esibiva alla Railway Tavern di Londra. Townshend era solito far roteare la chitarra sopra la testa. Quella sera il manico della sua Rickenbacker andò a sbattere contro il soffitto, rompendosi. Era stato indebolito da un'altra attività amata dal chitarrista: tenere un accordo e picchiare la paletta contro l'amplificatore per cavarne un rumore assordante. «Non m'aspettavo che si spaccasse», ha detto della sera alla Railway, «né immaginavo che gli spettatori non reagissero. Decisi di trasformare l'incidente in un evento. Feci a pezzi la chitarra e lanciai al pubblico quel che rimaneva. Presi la chitarra di riserva e continuai, come se quell'episodio fosse stato premeditato». La voce del gesto provocatorio si sparse velocemente nell'ambiente attirando ai concerti sempre più curiosi. Col passare del tempo il rito, cui Moon partecipava con solerzia, diventò sempre più teatrale ed elaborato, a volte eseguito a favore dei fotografi. È stato calcolato che durante il primo tour americano, una sola settimana nella primavera del '67, gli Who fecero fuori 22 microfoni, 5 chitarre, 4 amplificatori, una batteria. I roadie scioperarono: erano stufi di raccogliere i pezzi e cercare di riparare gli strumenti in tempo per la data successiva. Secondo Townshend, «non si trattava solo distruzione, non era violenza cieca. La consideravo una forma d'arte. Presso il movimento tedesco dell'arte autodistruttiva si producevano sculture destinate a collassare, si dipingeva con acidi in modo che i quadri si rovinassero, si costruivano edifici che si sarebbero autodemoliti. Anch'io salivo sul palco convinto di fare dell'arte». Secondo Moon, molto più semplicemente le distruggeva «perché era incazzato. Eravamo frustrati: ce la mettevamo tutta per dare al pubblico un evento. Se ci accorgevamo che non ci davano niente in cambio, ecco, lì partiva la distruzione». Che a volte diventava autodistruzione. Nel maggio del '66 un concerto cui Moon ed Entwistle erano arrivati in ritardo si trasformò in una battaglia campale. Durante My Generation, il batterista venne colpito dalla chitarra di Townshend e dall'asta del microfono di Daltrey. Se la cavò con un occhio nero e tre punti di sutura a una gamba.
Era il prezzo di un'esistenza fuori dalle regole e della volontà di amalgamare personalità tanto esuberanti e tanto diverse. Forse, era anche il prezzo da pagare per l'energia fisica e mentale che i quattro investivano nelle esibizioni, per l'intensità sovrannaturale di cui le caricavano. Tutto, anche il dolore fisico, i soldi perduti, i litigi, tutto pur di raggiungere uno di quei «rari momenti in cui la band e il pubblico sono dimentichi di se stessi e del proprio ego».
Non è una grande definizione di un concerto degli Who?


Nel dicembre del 1963 gli Who suonavano alla St. Mary's Hall di Putney, a sudovest di Londra. I quattro, ancora noti come Detours, aprivano per un celebre gruppo inglese, uno di quelli in ascesa verticale in quegli anni di grande fermento della scena britannica.
Alla fine della propria esibizione i Detours tornarono nel backstage. Lì, poco prima che s'alzasse il sipario per le star della serata, Pete Townshend spiò uno dei musicisti dell'altra band con la chitarra a tracolla. Per riscaldarsi, il tizio muoveva il braccio in senso circolare, descrivendo un ampio arco, come la pala di un mulino. Fu un'epifania. Townshend prese in prestito quel movimento e lo abbinò allo stile che stava sviluppando, fatto di pennate violente e staccate, esplosioni ritmiche che avrebbero trovato una figurazione nel mulinello della braccia. Finalmente, aveva trovato la traduzione visiva del suo sound, un modo per rappresentare la ricerca della nota «pura e semplice» che avrebbe redento il mondo. Quindici anni di esperienza rock compressi in un gesto e in un suono che riusciva a dire l'indicibile.
Keith Richards non l'ha mai considerato un furto.

da www.jamonline.it


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MessaggioInviato: 19 gennaio 2011, 12:50
Messaggi: 2144Località: trevisoIscritto il: 24 febbraio 2006, 0:28
questi racconti sono da brivido


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MessaggioInviato: 8 febbraio 2011, 14:41
Avatar utenteMessaggi: 3987Località: MilanoIscritto il: 23 marzo 2008, 12:49
Roger Daltrey torna a cantare. Il frontman degli Who mette fine ad un periodo di inattività perché sarà l'headliner di una delle serate organizzate dall'ente benefico britannico Teenage Cancer Trust; Daltrey è uno dei principali sostenitori dell'associazione, fondata nel 1997, che aiuta i giovani colpiti da tumore. La manifestazione "Concerts for Teenage Cancer Trust", giunta all'undicesima edizione, si svolgerà alla Royal Albert Hall di Londra e Roger capitanerà la serata del 24 marzo. Notevoli anche gli altri headliner, che sono
"Comedy evening" con John Bishop e Kevin Bridges (21 marzo)
Squeeze, Feeling (22)
Biffy Clyro (23)
Beady Eye (25)
Editors (26)
Tinie Tempah (27).
Daltrey ha promesso che eseguirà anche alcuni brani da "Tommy", il celebre doppio LP degli Who del 1969 sul quale fu creato il film "Tommy" del 1975.


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MessaggioInviato: 20 marzo 2011, 17:09
Avatar utenteMessaggi: 3987Località: MilanoIscritto il: 23 marzo 2008, 12:49
Per una sola serata ha brillato un supergruppo inedito e probabilmente destinato a non ripetersi. Per l'inaugurazione del W, il
nuovo hotel nella centralissima Leicester Square di Londra, sono stato messi assieme musicisti provenienti dai quattro punti cardinali della capitale britannica e che per "one night only" hanno costituito i W's, la house band dell'albergo. Al microfono è andato Roger Daltrey degli Who, al quale si sono uniti Mick Jones (ex Clash e Big Audio Dynamite), Jay Mehler dei Kasabian e Zak Starkey, quest'ultimo ex Oasis nonché figlio di Ringo Starr dei Beatles. Daltrey non conosceva tutti i testi a memoria e quindi spesso si è aiutato con dei fogli che ha tenuto in mano. L'improvvisato gruppo ha eseguito, tra le altre canzoni, "London calling" dei Clash e "I can't explain" degli Who. Ad applaudire la band sono stati notati Boy George, Alexa Chung (presentatrice e fidanzata di Alex degli Arctic Monkeys), Jade Jagger ed Estelle.


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MessaggioInviato: 26 marzo 2011, 9:09
Avatar utenteMessaggi: 3987Località: MilanoIscritto il: 23 marzo 2008, 12:49
Ieri sera, alla Royal Albert Hall di Londra, Roger Daltrey ha reso omaggio ad uno degli album-cardine degli Who, "Tommy", e al suo ex partner musicale John Entwistle. Roger è apparso per un set solista nel quadro degli show benefici per l'ente Teenage Cancer Trust. Pete Townshend è comparso a sorpresa per dare una mano all'amico, ma per i soli brani "The acid queen" e "Baba O'Reily". Oltre ai brani da "Tommy" e "Baba O'Reily", Roger ha proposto "My generation" e la sua "Without your love" e ha dedicato una canzone ad Entwistle -scomparso nel 2002- dicendo "questa è per lui e per tutti i ragazzi che ci sono in giro che
vengono mandati in posti terribili come l'Afghanistan". Secondo fonti locali la scaletta della serata è stata questa:
'Overture'
'It's a boy'
'1921'
'Amazing journey'
'Sparks'
'Eyesight to the blind (The hawker)'
'Christmas'
'Cousin Kevin'
'The acid queen'
'Do you think it's alright?'
'Fiddle about'
'Pinball wizard'
'There's a doctor'
'Go to the mirror'
'Tommy can you hear me?'
'Smash the mirror'
'I'm free'
'Miracle cure'
'Sensation'
'Sally Simpson'
'Welcome'
'Tommy's holiday camp'
'We're not gonna take it!'
'Days of light'
'Pictures Of Lily'
'My generation/I can see for miles'
'Baba O'Riley'
'Without your love'.


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MessaggioInviato: 27 marzo 2011, 13:12
Messaggi: 2144Località: trevisoIscritto il: 24 febbraio 2006, 0:28
beh,allora se ha recuperato così bene la voce,perchè non tornano per un concertino?


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