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MessaggioInviato: 19 febbraio 2016, 16:34
Avatar utenteMessaggi: 706Località: Acqui Terme (AL)Iscritto il: 12 luglio 2007, 12:01
Cosa chiedere agli Who nel 1971?
La band più quadrangolare della storia, (Daltrey, Townshend,Moon, Entwistle, non esistono uno, senza l’altro, mi spiace, ma è così) e sottovalutata, almeno in Italia ,(dove parliamo sempre di Stones, Led Zeppelin, Pink Floyd, e sembra che gli Who non siano mai esistiti, se non per Ligabue che si chiede se li passano in cielo, ma oltre non va...-dei baronetti non ne voglio nemmeno parlare..)
aveva già fatto i suoi bei numeri di rock’n roll circus.,.composto un inno incendiario ed epocale come “My generation” nel 1965,aperto il primo grande Pop festival dela storia (Monterey 1967), fattoci capire che il rock’n’ roll non era una sapida sveltina da tre minuti e mezzo, ma una cosa seria e drammatica come la storia di un ragazzo cieco sordo e muto che diventa prima una stella del flipper e poi una divinità pop, e come tutti, nello stardom del XX secolo, amato e odiato… E le diatribe tra Mod e Rockers, strumenti e camere d’albergo distrutte;groupies riempite e bottiglie svuotate..
Agli Who riesce l’album perfetto nel 1971 con questo mirabile, immortale, intramontabile, eccezionale lavoro.
Già la copertina con loro quattro dopo la pisciata arrogante su questo strano e Kubrikiano monolite è da guadare e riguardare..
Pare che dovesse essere un’altra opera Rock come Tommy, una specie di distopian novel a tempo di rock chiamata “Lifehouse”, o qualcosa del genere, ma i dirigenti della casa discografica, volevano un disco diciamo “normale” e così, Lifehouse venne sottoposta a questa cura dimagrante, che ci porta ad un Ira di Dio di soli nove pezzi, ma che pezzi..
(fateci caso, come “Let It bleed”, come “Led Zeppelin II”, come “Dark Side of the Moon” questo è kharma… :-D) )
Incastonato fra due opere ambiziose e abbondanti (“Tommy” del 1969 e “Quadrophenia” del 1973, a loro tempo entrambe in LP doppio ed entrambe con film al seguito) le surclassa abbondantemente,secondo me grazie ad un irripetibile stato di grazia compositivo del chitarrista Pete Townshend, sublimato da geniali trovate di arrangiamento, per l’epoca assai innovative.
Gli strumentisti sono tutti al massimo delle loro possibilità: Townshend risolve la propria limitata, seppur grintosissima e peculiare, tecnica chitarristica azzerando quasi gli assoli, sferragliando da par suo a tutto braccio di acustica e di elettrica, nonché svariando a pianoforte, organo e sintetizzatore, e poi affiancando spesso e volentieri al microfono il cantante Daltrey, il quale di per sé ci dà oltremodo dentro col suo stile imperfetto, ma potente e generoso. La sezione ritmica merita ascolti dedicati (una volta familiarizzati con il disco): lo stile furioso e creativo del pazzoide Keith Moon risplende fortissimamente con colpi di tamburi e piatti pieni di cuore e potenza; le praterie melodiche che riesce a trovare il basso nodoso e agilissimo di John Entwistle sono senza confini, vere e proprie canzoni dentro la canzone .
Come non bastasse, vi sono un paio di strumentisti ospiti che fanno cose bellissime, il pianista Nicky Hopkins(che nel frattempo rendeva bellissime , diverse belle canzoni degli Stones) nobilita un paio di ballate col suo caldissimo tocco pastorale ed il violinista Dave Arbus, correndo col suo strumento elettrificato dietro a quel matto di Keith Moon, stampa un memorabile assolo in fuga nel finale di “Baba O’Riley”.
Costei è la canzone che apre l’album ed il primo dei consacrati capolavori di cui esso è impagabilmente disseminato. Per il suo incipit Townshend si inventa nientemeno che la prima “sequenza” nella storia del rock, una frase ostinata di sintetizzatore che compare prima da sola, viene raggiunta progressivamente dagli stacchi di piano (sempre Townshend), dal groove di batteria e poi via via da chitarre e voce, restando poi da sfondo a tutto il brano e riaffiorando negli stop e nelle sincopi. Una tipologia di arrangiamento di cui negli anni ottanta specialmente faremo poi scorpacciate, ma la sua prima genie è qui, a buon merito del nasuto Pete Townshend, esimio compositore. Il titolo del pezzo è un collage fra i due ispiratori dello stesso, il santone Baba, grande ispiratore di Townshend e il musicista Terry Riley, grande ispiratore della partitura di sintetizzatore che rende questo brano così peculiare. Daltrey canta deciso le strofe, si fa da parte per far cantare al suo chitarrista il breve ponte e conclude poi con un urlo lancia la fuga di violino elettrico, una faccenda in cui Keith Moon ci mette del suo, serrando sempre di più il ritmo e costringendo Dave Arbus ad inseguirlo fino al parossistico finale: cinque minuti di perfezione.
In “Bargain” il senso di ricovero creato nel prologo dalle assolvenze di chitarra elettrica, controllate con il pedale del volume e sostenute dagli accordi di acustica, viene demolito dalla tipica entrata strabordante della batteria a doppia cassa che detta un ritmo decisamente rock, subito squassato dalle altrettanto tipiche scariche ritmiche di Townshed, quelle a braccio roteato a 360°, suo marchio di fabbrica. La melodia è bellissima, splendido pure lo stacco strumentale con dei bordoni di sintetizzatore e un basso sublime. L’irruento Moon riconduce il gruppo di nuovo al rock iniziale per un’ulteriore strofa al termine della quale la chitarra acustica ed ancora il synth provvedono adeguata base per un fantastico lavoro di doppia cassa e sventole varie un po’ su tutte le pelli dell’esplosivo Moon. Cinque minuti e mezzo di libidine.
Melodicamente fortissimo pure l’attacco del terzo brano, “Love Ain’t For Keeping”: due chitarre acustiche dettano ritmo e armonia, Daltrey è sonoro ed evocativo, il bassista e il chitarrista lo sostengono ai cori. Non vi è traccia di chitarra elettrica e il tutto si conclude dopo poco più di due minuti, semplici ma decisi ed efficaci. In “My Wife” parecchie cose cambiano, è l’unico episodio dell’album non composto da Townshed ed alla voce ed al pianoforte vi è l’autore del brano, il bassista Entwistle: è un rocchetto piacevole ma senza quelle genialità melodiche e armoniche proprie del suo collega chitarrista, uno fra i migliori compositori della storia del rock, nel quale una sezione fiati prova a dare un certo nerbo .
Comunque, ad avercene oggi di pezzi così, a me capita spesso di canticchiarlo..
Torna ad innalzarsi il disco con l’attacco chitarra/pianoforte di “The Song Is Over”. Si sente che sta lavorando un pianista coi fiocchi, pochi e semplici accordi ma suonati dall’ospite Hopkins con una sensibilità da concertista. La canzone si inerpica poi per sentieri ritmici e melodici più impervi, con Daltrey che ha modo di spingere la sua tonante voce fino al limite, per poi riacquietarsi sul pianoforte, ripartire una seconda volta e planare sulla sezione strumentale, risolta da un incrociarsi di pianoforte e sintetizzatore da una parte, basso e batteria dall’altra fino al reiterato finale: bellissima. Ma ancora più bella è “Getting In Tune”, che nel vecchio LP apriva la seconda facciata: ancora il pianista Hopkins ad introdurre la prima strofa e poi accompagnare Daltrey con incommensurabile classe. Essi vengono poi raggiunti dall’esuberante sezione ritmica, per uno sviluppo del brano assolutamente convincente, specie quando la strofa viene ricantata in coro a tre voci ed in altra, più elevata tonalità. Il brano si conclude con la solita irruenta jam session nel quale svetta il solito Keith Moon a suon di rullate.
La seguente “Going Mobile” è cantata da Pete Townshend. La sua voce nasale e afona è sostenuta nuovamente ed adeguatamente da una ritmicissima chitarra acustica e da saltuari contrappunti di sintetizzatore, conclusi da un assolo all’elettrica con il pedale wah wah, anch’esso molto ritmico. L’episodio senz’altro meno interessante del disco, soprattutto per la mancanza del forte timbro vocale di Daltrey. Il quale torna alla grande per cantare la ballata “Behind Blue Eyes”, vetta melodica del disco: un arpeggio di acustica giocato sui rivolti di quarta, sesta e nona sostiene la bellissima progressione vocale e sfocia in un ritornello a tre voci di grande suggestione. La batteria entra solo per il ponte e la sezione strumentale, per poi acquietarsi e far cantare a Daltrey un’ultima strofa: da brividi.
L’epilogo del disco è fornito da un abbondante brano (oltre otto minuti) che ha messo d’accordo un po’ tutti quelli che masticano musica rock più o meno appassionatamente: trattasi di assoluto capolavoro. “Won’t Get Fooled Again” inizia con una scarica di chitarra elettrica che libera una partitura di organo sintetizzato VCS3 che ha fatto epoca: in maniera simile a ciò che sta nel prologo “Baba O’Riley”, il disegno armonico/ritmico dell’organo resta da sfondo a tutto il pezzo, sommerso dagli altri strumenti nelle fasi più concitate e pronto a riemergere appena essi tacciono. A parte il genialissimo e trascinante lavoro d’organo, in questo pezzo d’arte Townshend mette al massimo anche la sua grande abilità di chitarrista ritmico, accompagnando Daltrey con grande personalità e poi tagliandosi passaggi ritmico/strumentali di inestimabile gusto e sonorità. “Won’t Get Fooled Again" si dipana a lungo senza però minimamente stancare, alternando cantati e perfetti intrecci strumentali. Particolarmente memorabili le fasi in cui è il VCS3 al proscenio, da solo o con la sola strabordante batteria di Keith Moon a scandire gli ottavi battuti dall’organo, mitico anche l’urlaccio accappona pelle che Daltrey decide di emettere per introdurre l’ultima strofa: di una potenza mai sentita. Il pezzo, e il disco, si concludono con gli ultimi stacchi all’unisono di basso chitarra e batteria.
Melodia, originalità, grinta, furia, personalità, passione, lucidità d’intenti , cioè Arte circolano copiosamente in questa grande opera di musica popolare dello scorso secolo, della quale è indispensabile la conoscenza, per ogni persona che si rispetti


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