Messaggi: 4367Località: CelleIscritto il: 18 settembre 2006, 13:04 |
LES TROIS TETONS
La provincia italiana è da sempre fucina di talenti e di umanità. Lontani dalla luce scintillante dei grandi centri, tra atrocità e genuinità muovono le fila esistenze fatte di fabbriche, artigianato e ritmi blandi. Varazze è una cittadina del savonese nota perlopiù come meta estiva non molto blasonata e terra di seconde case per i milanesi dagli anni ’60 in poi. Ma se vogliamo parlare della scena musicale underground della metà degli anni ’90, diventa un luogo fondamentale: oltre ad essere la terra natale di Zibba e dei suoi Almalibre, non si può prescindere da Les Trois Tetons se si vuole parlare di rock in Liguria. In tutto il ponente ligure i centri di ritrovo erano e sono pochi, ma conosciuti da tutti gli appassionati, quasi un codice segreto di unità e passione alternativa: il rimpianto Giuditta Rock Cafè, il Beer Room a Pontinvrea e qualche volta anche il Ju Bamboo di Savona che, alternando discoteca commerciale a cover band a volte tristi, poteva regalare qualche buon concerto. E poi i circoli ricreativi: l’Arci Brixton, l’Italo Calvino, per citarne alcuni, in una provincia dove il centro sociale non ha mai rappresentato un fulcro di ritrovo per gli amanti della musica come nella pur vicina Genova. Le mille cittadine di mare con i loro stabilimenti balneari garantivano qualche serata estiva su terrazze improvvisate, dove si suonava in ciabatte e costume sotto i jeans, pronti ad un bagno di mezzanotte. Qualche volta, al massimo, si sconfinava nella “Wild” Bormida per qualche data in cambio di birra e poche centinaia di lire, oppure nel basso Piemonte, dove la cultura musicale fa a pugni col grande pubblico come in ogni provincia italiana. Ma questo non importa, il senso di appartenenza ad una realtà “altra” l’ha fatta da padrone: negli anni ’70 si seguiva il cantautorato della scena genovese e, per il resto, chi sentiva i Pink Floyd o gli Stones a Savona era una specie di guru, detentore di un sapere mistico e multietnico, nella terra in cui la leggenda vuole che chi costruisca una casa, prima erga un muro per nascondersi dalla gente. Negli anni ’80 questa cultura di nicchia ha portato all’antagonismo tout court: spinti dalla forza iconoclasta del punk, savonesi come Marco Balestrino scrivono la storia del movimento Skinhead e Oi! con i Klasse Kriminale, tra i più alti esponenti a livello italiano ed europeo con i bolognesi Nabat. Con la fine delle ideologie, negli anni ’90 la scena è orfana di un sentore comune e le band, ebbre dei mille sottogeneri appena nati del rock contaminato, si abbandonano ad un periodo florido in cui suonare sembra più accessibile a tutti, ma la scena è in realtà sfaccettata e pressoché inesistente. Grunge e punk rock inghiottiscono le energie della maggior parte dei gruppi, alcuni si danno al folk, altri al metal e al rap, pochi o nessuno all’elettronica indipendente, ancora lontana ed incompresa dalla realtà rock di provincia: sono pur sempre gli anni dell’antagonismo tra i seguaci di Scatman e quelli di Cobain, tra i “fighetti” e i “rockettari”. Gli Lcd Soundsystem e l’indietronica verranno dopo, mentre Brian Eno aveva fatto ben pochi proseliti nel ponente ligure ed ancora oggi, da queste parti, si guarda con diffidenza a batteria elettronica e laptop. Ma c’era chi aveva le idee già chiare e faceva “classic rock” quando ancora non si chiamava “classic”: Les Trois Tetons.
*** Nel 1992 Les Trois Tetons nascono come cover band e a chi chiedeva loro, “ma che vuol dire tetons?” la risposta era lapidaria: “Non lo so, ma prova tu a trovare un nome interessante per una band rock oggi”. Chi vuole, vada a cercare una citazione delle montagne rocciose americane o ad un più succulento trio di capezzoli nello stile della baldracca tritettuta del film “Atto di forza”; di queste supposizioni, rimarrà un’assonanza e poco più. Ma il nome rimane il solo elemento nonsense del gruppo, per il resto tutto è scandito in ruoli ben precisi: Zac alla voce, chitarra e armoniche, Barbon alla chitarra elettrica, Alberto “Icarus” al basso e Guido alla batteria. Un classico quartetto rock. La differenza la fa, come al solito, l’attitudine. Nella miriade di cover band, i Tetons si sono distinti per l’energia e la fede nel rock: Zac è un frontman perfetto, con il phisique du role da novello Jagger-Iggy-Boss agitati in un cocktail ben bilanciato. Danza e si contorce sul palco, a petto nudo, con variopinti pantaloni a zampa. Ha una cassetta di armoniche che custodisce come una modella fa con i suoi trucchi e che sa usare con potenza e precisione, con l’aria che gli attraversa il petto ed i lunghi capelli ricci che ondulano nell’aria intrisa di sudore. Barbon, bagnino d’esperienza nella vita, è un cultore di dischi e la sua chitarra solista ha assunto un timbro molto definito che sa usare con sapienza. Alberto è “il” bassista: imperturbabile e attento, disegna linee fluide con precisione infinitesimale. Guido è eclettico, sembra stralunato ma in realtà è quadrato; ogni tanto si scoccia, si alza e suona il pavimento, il soffitto, gli sgabelli e le pinte di birra. Poi torna ad adagiarsi sullo sgabello come se nulla fosse, senza essere fuori di un solo quarto di tempo. I quattro non hanno mai cercato la gloria, non si sono mai voluti gestire né risparmiare, bensì hanno accettato serate un po’ ovunque, trasformando anche qualche matrimonio o festa scialba in un piccolo rituale rock’n’roll; una party band, in un certo senso, nell’accezione migliore del termine, in un periodo dove è sempre più difficile non sopperire alla dance per danzare e divertirsi fisicamente, e di questo gli siamo grati. Cuore, passione, zero marketing. Niente manager, niente booking. Così se oggi qualche band ha fatto una capatina di successo grazie al sapersi vendere bene, i nostri non si sono mai venduti. Conquistando una vasta fetta di pubblico che sarà loro, per sempre.
*** Le feste, i live incendiari, sono solo una piccola parte, anche se molto importante della storia di Les Trois Tetons. Il formidabile repertorio di cover filtrate dai quattro con tutta la passione che li contraddistingue viene parzialmente impresso nei dischi live “You Gotta Move” e “Malt And Hopper”, rispettivamente del 2000 e del 2003, che danno solo un’idea di quello che i Tetons possano fare se osservati in carne ed ossa. Ma ben presto l’urgenza di passare ai brani propri si fa ingombrante e supera l’incertezza dell’abbandono della celebrazione del rock che li ha resi così apprezzati. “Sweet Dancer” del 2005 è l’esordio alle musiche e ai testi autografi e mostra un lato dei Tetons che sul palco non avrebbe trovato sfogo, quello più intimista delle ballad melanconiche. La strada è aperta, il palco aspetta per la prima volta i brani i brani dei Tetons. Ma l’attitudine rock reclama un disco più ritmato, soprattutto, a quanto sembra, su pressione di Guido. Nasce così nel 2008 “A Pack Of Lies” che consacra Les Trois Tetons come band allo stato di grazia nella loro nuova incarnazione.
“Dangereyes”
Passiamo al disco che avete fra le mani. L’approccio alla famigerata terza prova dei Tetons è mirabile sin dal primo ascolto: nessuna tensione al di fuori di quella creativa, piuttosto prevale una maturità che surclassa ogni piccola parvenza di mancanza d’ispirazione. Forse perché non si giocano nessuna carriera, visto che la fiducia in loro è sempre stata incondizionata. Chi li conosce sa bene a quale livello di professionalità siano giunti i nostri oggi. Nessuna maschera equivale a nessuna brutta sorpresa. La title track è un ottimo singolo che rappresenta il disco, il brano più diretto e rappresentativo. “Berlin 1987” ha un’urgenza espressiva che ne forza il ritmo in uno strano esperimento, sembra di sentire i Clash con una sbornia per Gram Parsons. Lo spirito degli Stones aleggia in molte tracce, soprattutto nella tripletta consecutiva “The Ghost Of My Mother”, “Waiting”, “No Scars” e come attitudine all’essenzialità e ad arrangiamenti mai pomposi. Il barocco non è ancora arrivato, anzi, con “Dangereyes” nelle orecchie sembra proprio non essere mai esistito. Ci sembra di perdere la bussola. Forse i tempi andati non sono veramente andati, forse Robert Johnson non ha mai bevuto quel whisky avvelenato che l’avrebbe ucciso, forse Brian Jones non ha mai fatto quel tuffo mortale ed impreziosisce con la marimba i pezzi dei suoi sodali. Robert Smith non è mai nato e i genitori di Cobain sono ancora single e girano per l’America nella carovana dei deadheads. La provocazione aleggia nella mente persa: può essere che dopo il 1975 valga la pena di chiudere le porte ai contendenti del rock per “tutto esaurito”? Maledizione, non scherziamo, il rock è certamente anche altro, pensiamo alla new wave. Ma la cristallizzazione dei Tetons più che darci sicurezze ci fa vacillare, come succede con la migliore arte. Soprattutto quando sentiamo certi effetti lisergici postbeatlesiani della voce ovattata di Zac in “Nightlife (Followed By Shadows)”. Considerato che l’arrangiamento lo curano loro stessi è limpido e curato, senza superproduzioni ma con il missaggio del fidato Alessandro Mazzitelli, una vera leggenda dell’underground savonese visto che chiunque armeggi con il rock è passato almeno una volta da lui. Arriviamo a “Don’t trust The Mirror” che rappresenta forse la ballad più riuscita dai Tetons, per chiudere con “A Shot Of Air”, che lascia nella testa un’altra idea meno folle delle precedenti: schiacciare di nuovo play e perdersi nel buio, nel fuoco e nel desiderio di questo disco.
Antonio Bergero - Rockerilla
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